Polvere e Cenerina, una storia d’amore

La giovane coppia di aironi si era stabilita lungo la foce di un piccolo fiume.
Il maschio si chiamava Polvere, la femmina Cenerina.
Si erano fermati lì subito dopo il corteggiamento perché a Cenerina era sembrato un luogo isolato e le era piaciuto l’ammasso di canneti che li nascondeva alla vista dei curiosi. Da lì, inoltre, si poteva vedere la grande distesa del mare e, la sera, sentire la brezza salmastra che portava l’odore di altri uccelli e altri luoghi lontani.
Polvere e Cenerina vivevano felici pescando nell’acqua bassa della riva e facendo lunghi voli. Amavano volare soprattutto la mattina, al primo levar del giorno. Era questa l’ora in cui l’attività febbrile degli uomini non era ancora iniziata, non si sentivano rumori e la campagna era ancora immersa in una luce magica: la rugiada rifletteva i colori del cielo e dalla vegetazione saliva l’odore della terra.
La giovane coppia si sentiva appagata e felice.
A Cenerina tornavano in mente, ogni tanto, le immagini del loro primo incontro.
Era mattina. Lei era appollaiata con altre giovani femmine sopra un imponente salice quando vide Polvere che volava solitario. La colpì l’elegante cadenza del battito delle ali e la leggerezza del suo volo. Vide che si dirigeva verso il mare; allora, spinta da un impulso improvviso, lo seguì. Era affascinata dalla grande distesa azzurra, sempre mare eppure sempre mutevole nelle forme, nei suoni, nei colori. Lo raggiunse e lui la scorse argentea nei riflessi della luce del mattino. Le sembrò speciale e non la lasciò più.
Iniziò il corteggiamento. I due compagni compivano lunghi voli e danze di “parata”, gettando la testa in avanti e all’indietro, aprendo a ventaglio le ali e lanciando grida modulate.
Decisero poi di allontanarsi dalla colonia per stare un po’ da soli e scoprirono il luogo dove vivevano ora.

Arrivò poi il momento dell’accoppiamento. Polvere compì i movimenti rituali propri della specie: allungò e ritrasse il collo, arruffò le penne del petto e lanciò dei richiami gutturali per attirare Cenerina poi si unì a lei. Fu un momento unico, irripetibile, in cui sentì che lui e la compagna erano un essere solo. Lo stesso successe a Cenerina. Questa scoperta riempì il loro cuore di tenerezza.
Col passare dei giorni, Cenerina cominciò a sentirsi inquieta. Polvere era premuroso con lei, il luogo le piaceva ma, dentro di sé sentiva un impulso a partire:
Il compagno se ne accorse. Una sera, mentre erano appollaiati su un ramo in attesa di prendere sonno, Polvere le disse: -“Vuoi dirmelo?
” Dirti cosa ? ” rispose Cenerina
” Qual è il problema? A volte ti sento distante, assente” proseguì il compagno.
” E’ che” sono inquieta, sento come un impulso che mi spinge a partire”
Polvere capì. ” Quest’ inquietudine” spiegò “colpisce le femmine quando si avvicina il tempo di deporre le uova e tu senti proprio questo! Torniamo più a nord, nel posto da dove siamo venuti, lì troveremo altri aironi e altri uccelli acquatici. Ti sentirai più sicura e protetta. Quello mi sembra un buon posto per nidificare: Qui potremo sempre fare ritorno.
Polvere aveva ragione, convenne Cenerina.
Il viaggio fu breve. Volarono lungo la costa per tutto il giorno finchè, al tramonto, videro la grande foce. Seguirono il corso del fiume fino ad un posto fitto di vegetazione: c’era un boschetto di pioppi e salici e un intrico di canneti. Cenerina si fermò su un alto pioppo e disse: “Possiamo fermarci qui” Poco lontano riconobbero il loro stormo e notarono altre specie di uccelli d’acqua dolce.
Il giorno seguente iniziarono la costruzione del nido. Polvere trovò una biforcazione tra i rami,che faceva al caso loro. La indicò alla compagna poi iniziò a cercare rametti, stecchi , canne che Cenerina, con maestria, intrecciava. Dapprima formò una piattaforma coi lati rialzati a mo’ di barchetta poi foderò l’interno con muschio, felci e lanugine dei pioppi per proteggere le uova dagli scuotimenti del vento e per mantenerle più al caldo.
Quando calava la sera si concedevano una pausa dal lavoro, scendevano sulla riva e cercavano piccoli pesciolini e ranocchi per la cena. I ranocchi erano il cibo preferito di Cenerina e Polvere li pescava per lei.
Dopo essersi saziati si concedevano un breve volo verso il mare compiendo lenti e profondi battiti d’ala. La loro silhouette era inconfondibile: il collo tra le spalle e le zampe estese. Poi tornavano all’albero, si appollaiavano vicini e dormivano.
Il mattino seguente riprendeva la loro attività febbrile.
Finalmente il nido fu pronto e i due aironi lo guardarono soddisfatti.
Dopo qualche giorno, Cenerina non se la sentì di alzarsi in volo e lo spiegò al compagno: si sentiva pesante e indolenzita: avvertiva qualcosa che premeva dentro di lei e che spingeva per uscire; era una sensazione che non aveva mai provato prima. Allora, seguendo l’istinto che prima di lei aveva guidato tutte le femmine della sua specie, si sistemò nel nido. Polvere capì: si alzò in volo in cerca di cibo per lui e per la compagna. Quando tornò, Cenerina lo accolse felice: aveva deposto il primo uovo. Polvere si appollaiò di fianco alla compagna e le manifestò la sua gratitudine lisciandole le piume del collo col becco. La deposizione delle uova durò tre giorni: erano di un colore azzurro verdastro come lo era, a volte, il colore dell’acqua: ai due aironi sembravano perfette.
Da quel giorno, per la coppia, iniziò il periodo della cova. Cenerina passava la maggior parte del tempo accovacciata sulle uova, ma la sera e la mattina, i momenti della giornata che lei preferiva perché più intenso era l’odore salmastro della brezza, Polvere le dava il cambio, così poteva rifocillarsi e volare un po’. Il compagno, dal canto su, quando non passava il tempo a pescare e a compiere brevi voli attorno al nido, si sistemava immobile ai piedi del grande pioppo, mimetizzato tra la vegetazione, con le ali chiuse e il lungo becco allungato, la testa ferma ma lo sguardo vigile, come a fare la guardia al nido.
La sera, i due compagni, dormivano vicini.
Venne poi il tempo della schiusa. Un pomeriggio, quando Polvere era lontano dal nido, Cenerina sentì un piccolo scricchiolio: era il becco del primo pulcino che batteva nell’interno del guscio e si dava da fare per uscire. Poco dopo il guscio si ruppe, emerse un capino tutto nudo e bagnato, con una piccola piuma bianca al centro poi un corpicino con due alette appena abbozzate e due zampine rattrappite. Cenerina lo guardò ammirata, lo sfiorò col becco poi lo coprì con il suo corpo caldo; il pulcino si sentì subito accolto e protetto.
Quando Polvere tornò Cenerina gli mostrò il pulcino: non poteva dirsi bello ma a Polvere sembrava straordinario. Si commosse al pensiero che quell’esserino era nato da lui e Cenerina e che così piccolo e indifeso aveva in sé la capacità di crescere e diventare adulto.Dopo qualche giorno si schiusero anche le altre uova: ora gli esserini straordinari erano tre e la felicità di Polvere e Cenerina fu completa.

Cerina, una storia per bambini nata dalla contemplazione della realtà

C’era una volta una bambina di nome Cerina.
Si chiamava così perchè odorava di cera. Cerina infatti viveva con le api ed era la loro aiutante.
Aveva la sua casetta vicino all’alveare: era di legno, piccola e graziosa e sapeva di miele.
Mentre le sue amiche api erano al lavoro sui fiori, Cerina passava il tempo a confezionare barattoli di miele e candele. di tutte le grandezze e di tutte le forme che poi vendeva al mercato del paese. Erano gli animaletti e gli oggetti che trovava nel bosco a suggerirle le forme delle sue candele che la gente del villaggio apprezzava molto e per questo andavano a ruba,.
Cerina, finita la giornata di lavoro, non si scordava mai di lasciare un pentolino di miele fuori della porta, per il suo amico orso che viveva all’interno del bosco.
La bambina infatti non era amica solo delle api ma anche di tutti gli animali che vivevano nelle vicinanze della sua casetta. Quando era libera dal lavoro passava interi pomeriggi a giocare con loro.
D’inverno però, quando era più difficile giocare, Cerina passava il tempo a costruire candele dalle forme strane che poi colorava con dei colori che d’estate estraeva dai fiori. Erano gli animaletti e gli oggetti che trovava nel bosco a suggerirle le forme delle sue candele che la gente del villaggio apprezzava molto. Qualche volta l’aiutavano le api che d’inverno si riposavano.
Al mercato del paese le candele di Cerina andavano a ruba. Tutti le compravano perchè durante i mesi freddi le notti erano lunghe e la gente dopo cena vegliava a lume di candela.
Una sera Cerina dopo aver preparato il cesto pieno di candele da portare al mercato, era andata a letto.
La mattina seguente si accorse che nel cesto le candele non c’erano più, al loro posto c’era una lettera che profumava di muschio. La lettera diceva:
Siamo le fatine del bosco,
ci servivano le tue candele
per festeggiare la rinascita
del Sole, la notte più lunga
dell’inverno.
Per farci perdonare
ti invitiamo alla festa.
Per favore vieni.
Ti aspettiamo a mezzanotte nel prato
che si trova nel cuore del bosco.

Cerina non credeva ai suoi occhi; il cuore le batteva forte forte per l’emozione.
Chiuse la lettera, la nascose dentro una tasca del suo vestito, mise altre candele nel cesto e, cercando di non pensare più a quella strana sorpresa, andò al mercato.
La notte più lunga dell’inverno, però, Cerina che non si era dimenticata dello speciale invito della lettera, e si recò all’appuntamento.
Per non perdersi nulla della festa si sedette nel punto in cui due bassi rami di un grande abete si intrecciavano e aspettò.
A mezzanotte precise vide uscire dalle chiome degli alberi lì attorno tante minuscole fatine con graziose ali trasparenti e un vestito di pizzo bianco del colore della luna.
Accanto a ogni fatina c’era un piccolo gnomo con indosso una tuta e un cappello a cono del colore del sole.
Tutti avevano in mano, accesa, una delle candele di Cerina.
La bambina rimase senza fiato.
Vide quelle strane creature danzare, in aria, una danza lieve guidati da una musica che a Cerina sembrava venire dal cielo e tutti facevano roteare le candele in modo che le luci formassero una sola scia luminosa.
Alla fine della danza le candele furono lanciate in aria e, insieme, formarono un grande Sole che scintillò come fanno i fuochi d’artificio.
Poco dopo, nel bosco tornò buio ma ogni fatina e ogni gnomo accese una piccolissima lanterna che portava al collo come una medaglia.
Una fatina si avvicinò a Cerina e l’accompagnò in mezzo al gruppo.
Tutti la ringraziarono per le candele e per essere venuta.
Uno gnomo, che alla bambina sembrava il più anziano, raccontò che quella festa si svolgeva tutti gli anni. Era per richiamare il Sole, per invitarlo a tornare a primavera, poichè ogni inverno se ne andava.
Cerina promise di preparare tutti gli anni per quella occasione le candele più belle che sapeva confezionare e che non sarebbe mai mancata a quello speciale appuntamento.

Meditare è stare nella vita

Estratto del capitolo 15 del libro “Conoscenza di sé, meditazione, contemplazione

S: Noi distinguiamo tra atto meditazione e contemplazione, è una distinzione didattica ma non è priva di senso: comprendiamo come atto meditativo il disporsi alla vita, e come atto contemplativo l’essere invasi dalla vita, quindi, se vuoi, l’atto contemplativo, lo comprendiamo come un qualcosa di conseguente all’atto meditativo. (…)
La meditazione è una disposizione interiore, è un disporsi della mente e di tutto l’essere rispetto alla realtà interiore o esteriore; rispetto alla realtà dei pensieri, delle emozioni, delle azioni; rispetto alla realtà dell’altro, qualunque sia l’altro con cui ci impattiamo.
Ciò che riguarda la meditazione non è una questione di tecnica e questa è la ragione per cui non abbiamo sviluppato nessuna tecnica particolare e non ci importa di svilupparne. Ci importa invece molto come la persona si dispone rispetto a ciò che accade nel suo intimo o fuori di esso.
Durante la meditazione la persona osserva ciò che accade: osserva, ascolta, reagisce a tutto ciò che accade, che sia pensiero, emozione o sollecitazione dei sensi; il meditante non si sottrae, è lì, presente.
Nella meditazione non segui il processo mentale o il processo emotivo, ma l’attenzione è costantemente focalizzata su ogni aspetto che colpisce la mente, o che colpisce l’emozione, o che colpisce la percezione; si osserva un pensiero e lo si lascia andare, si osserva un’emozione e la si lascia andare, si osserva una sensazione e la si lascia andare; non si indugia nel pensare né nel sentire, si lascia che ogni cosa sorga e ogni cosa scompaia.
Meditare è questo disporsi ad accogliere la vita nelle sue infinite manifestazioni e l’attimo dopo lasciarla andare; accoglierla e lasciarla andare, accoglierla e lasciarla andare.
E’ non trattenere; è non aspettarsi niente; è non perseguire nessuno stato di coscienza particolare.
Meditare è stare lì, con l’attenzione posata su ogni evento che accade nel presente, vedendo il gioco della mente che costantemente vorrebbe portarti verso il passato o verso il futuro, vedendo quando vuole agganciare un pensiero o un’emozione e li vuole coltivare; meditare è disconnettere e tornare a ciò che accade.
Vedere, disconnettere, tornare; vedere, disconnettere, tornare.
La meditazione non è un processo, è la rottura di tutti i processi, è la disarticolazione di tutti i processi perché nella meditazione l’osservatore costantemente ritorna all’oggetto osservato, a ciò che accade nell’attimo presente e non lo connette con il prima e con il dopo.
Tutto l’essere si manifesta nell’atto meditativo, nella sfera degli istinti, nella sfera delle emozioni, nella sfera del pensiero; tutto l’essere è coinvolto, tutto l’essere emerge.
Meditare non è coltivare una parte di sé, magari la parte buona, o la parte santa, o la parte spirituale; meditare è arrendersi a ciò che sorge dentro di sé e fuori di sé. E’ arrendersi ad un impulso sessuale, è arrendersi al cane che abbaia fuori, è arrendersi al vicino che si addormenta e russa.
L’atteggiamento di chi medita è privo di scopo, la meditazione di per sé non ha scopo, non c’è una ragione, non c’è una finalità per cui la persona si siede o si distende un attimo, all’interno della propria giornata; non c’è una ragione precisa, c’è un qualcosa che la sospinge.
La persona si ferma, non ha importanza in che posizione, e comincia ad osservare se stesso e la vita, quello che sorge, ed evita di apporre etichetta, commento, giudizio.
Semplicemente osserva, e più osserva e non appone etichetta, più la realtà sorge nelle sue mille manifestazioni, è autorizzata a sorgere, le permettiamo di sorgere; allora la meditazione è veramente un grande momento di conoscenza di sé, perché ogni aspetto della propria mente e del proprio essere può emergere e lì, siccome non viene apposto giudizio, si impara a vedere fino in fondo.
La meditazione non è uno stato trascendentale, è contatto con la realtà, è lasciarsi attraversare dalla realtà così come essa è, di qualunque natura sia, di qualunque portato morale sia; senza aggiungere niente, semplicemente osservando, prendendo atto, registrando come osservatore neutrale, ciò che accade.
Meditare è il gesto del non muoversi di fronte alle bordate del proprio essere e della vita, è stare lì qualunque cosa sorga, qualunque fantasma si presenti, qualunque condizione i flussi di energia nel nostro essere producano, perché evidentemente, la meditazione porta con sé anche processi energetici particolari, ma certo noi non cerchiamo stati alterati di coscienza; registriamo gli stati alterati quando si verificano.
Meditare è un disporre la mente, il cuore, il corpo, l’essere su tutti i piani, al presente che accade e lasciare che il presente ci attraversi in tutte le sue forme, come sensazione, come emozione, come comprensione e come processo energetico.
Quando la persona si ferma e crea uno spazio nella sua giornata perché sente l’impellenza di quel gesto, entra in una economia di vita particolare; il gesto stesso del fermarsi è un relativizzare tutto ciò che ha fatto fino a quel momento, è un dire: “Ho fatto delle cose, ho vissuto intensamente, mi sono speso in questa giornata, adesso sento l’esigenza di fermarmi; a volte non sento nemmeno l’esigenza di fermarmi ma lo faccio lo stesso, come atto di disciplina”. E’ importante anche questo, perché no?
A volte la mente è così eccitata che non riesce a fermarsi, allora la fermiamo con un atto di disciplina, diciamo no, adesso basta. Ci sediamo seguendo semplicemente l’inspiro e l’espiro e osservando magari dalla finestra, quell’albero che sta là fuori, o quel raggio di luce, o semplicemente stando ad occhi chiusi; ognuno sceglie la forma che più gli aggrada.
Stai qui, stai qui e comincia a lasciar andare tutto ciò che hai costituito in questa tua giornata, stai qui; inspiro dopo espiro impari a calarti in ciò che accade attimo dopo attimo, pensiero dopo pensiero, emozione dopo emozione, impari a lasciar andare ogni pensiero ed ogni emozione;
impari ad osservare quando sorgono e a lasciarli scomparire, stai qui.
Pian piano avviene un distendersi, avviene un allentarsi dell’eccitazione della mente, il corpo diventa più presente, la realtà attorno a noi diventa più presente, alcuni elementi che colpiscono i sensi è come se venissero amplificati.
Naturalmente la mente si affaccia in continuazione e in alcuni momenti riprende il sopravvento e allora scopri che sei andato dietro a un pensiero, o a un’emozione, o a un impulso istintuale: è sorto, non ha importanza, non c’è il modo giusto di fare meditazione, non c’è l’atteggiamento giusto nella meditazione, c’è lo stare dentro ciò che accade attimo dopo attimo, in quel tempo che dedichi a te stessa, in cui ti osservi e ti vedi.
Tutto fa parte del processo meditativo, il pensare e il lasciar morire il pensiero. Noi siamo costantemente dentro processi e dentro dinamiche; la meditazione è l’osservazione della realtà senza giudizio e quando ciò che accade non viene etichettato, immediatamente muore.
Nasce e scompare, nasce e scompare, nasce e scompare, questa è la dinamica di fondo quando non c’è etichettatura e giudizio: tutto nasce e tutto scompare.
Perché mai dovremmo impedire a qualcosa di nascere, e chi siamo noi per impedire ad un pensiero o ad una emozione di nascere? Perché mai dovremmo impedire alla vita di cantare se stessa attraverso un pensiero, un’emozione o un impulso istintuale, perché mai?
Noi osserviamo la vita che canta se stessa, questo è il meditare; osservare la vita che canta se stessa e non apporvi giudizio, ovvero scomparire di fronte alla vita che narra di sé.
Non è che la vita canti se stessa soltanto attraverso il canto dell’uccellino, o il volto di quella persona, o quella luce particolare; la vita canta se stessa anche attraverso i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri turbamenti, le nostre ansie; tutto è vita.
Allora un’ansia sorge e un’ansia scompare; una preoccupazione sorge e una preoccupazione scompare; un sorriso sorge e un sorriso scompare.
Meditare è stare nella vita così come essa accade, senza volerla ricondurre a noi, ai nostri parametri, alle nostre visioni, ai nostri schemi.
Meditare è un arrendersi; io sono qui e mi arrendo. Migliaia di volte in un’ora il gesto dell’arrendersi: io mi arrendo di fronte alla vita che sorge, io non la giudico, io non la critico, io non mi aspetto, io non voglio; io sono colui che si arrende, che è disponibile ad arrendersi.
E’ il gesto dell’arrendersi che poi prepara il sorgere dell’esperienza contemplativa, quindi la meditazione prepara la contemplazione, perché nell’atto meditativo io coltivo questo lasciare che la vita sorga senza avere il bisogno, la necessità di esprimere la mia opinione su ciò che sorge.
Meditare è osservarsi, ascoltare, tacere, arrendersi.
Non c’è niente di più lontano da noi delle tecniche e della ricerca degli stati di coscienza alterati o particolari; non critico questo, dico che appartiene ad altri approcci che non ci riguardano.
Nella meditazione siamo interpellati dalla vita che ora si presenta in un modo, ora in un altro; ora si presenta come canto d’uccello, ora come campana che suona, ora si presenta come ansia che sorge, non ha importanza.
Il meditante è nudo di fronte alla vita; il meditante non lotta contro la mente, non combatte la sua battaglia privata contro il mostro tentacolare; il meditante vede la sua mente, accoglie la sua mente, sorride sulla sua mente e non l’asseconda.
Come è vero che sono lontane da noi le tecniche è anche vero che è lontano da noi questo combattere contro la mente, ritenuta il nemico; ma quando mai! Nemico di chi? La mente è vita che si manifesta, il corpo è vita che si manifesta, il canto dell’uccello è vita che si manifesta: tutto osserviamo, tutto ascoltiamo, tutto lasciamo che accada; tutto dimentichiamo, tutto lasciamo scomparire, tutto lasciamo andare.
Lo sguardo del meditante è vasto sulla realtà: la osserva, la vede nel suo lievitare, nel suo manifestarsi, nel suo ribollire e non la segue; più questo atteggiamento viene coltivato, più l’osservatore scompare; più la mente viene contrastata, più l’osservatore si rafforza e permane e diventa il censore di se stesso.
Meditare è arrendersi alla vita che non è mai come noi ce l’aspettiamo, che mai ti manda quello stato che vorresti, quella condizione che vorresti; desidereresti che la tua mente tacesse e invece si affolla di pensieri; vorresti che la tua emozione si quietasse, invece sprizza eccitazione e allora la mente dice: “Non sto meditando, mi sto eccitando”, invece quell’eccitazione è vita che si manifesta e che pulsa, ma noi la giudichiamo e consideriamo che l’eccitazione sia incompatibile con la meditazione, e invece ciò che è incompatibile con la meditazione è il giudizio che apponiamo sulla nostra eccitazione. L’eccitazione è quel che è, è vita che canta; il pensiero è quel che è, ma anche il giudizio è quel che è, anche il giudizio è natura della mente, anche il giudizio è realtà, realtà della natura profonda della mente che si manifesta.
Se tutto è perfetto così com’è, se anche la mente nel suo manifestarsi e nel suo agganciarsi è perfetta così com’è, anche nel suo giudicare è perfetta così com’è.
Allora il problema non è se la mente è perfetta o non è perfetta, il problema è lasciare che ogni cosa nasca e ogni cosa scompaia, perché nel momento in cui seguiamo qualcosa di accaduto perdiamo di vista la realtà che di nuovo accade; la realtà è costantemente nuova e si presenta ora in questo modo, ora in quell’altro; in una frazione di secondo in un aspetto, in un’altra frazione in un altro aspetto e non ha nessuna importanza se in quel momento, su quell’aspetto, la mente appone un giudizio, l’attimo dopo tu sei già sull’altro aspetto che la vita ti ha presentato.
E’ morto l’aspetto precedente ed è morto il giudizio che portava con sé.
Ciò che veramente è rilevante è l’atteggiamento interiore con cui viviamo tutto questo, e quel sorriso che ad un certo punto ci pervade osservando lo scorrere della manifestazione umana.
Il problema non è se la mente canta se stessa e mette le sue etichette, il problema è come io mi relaziono con quelle etichette, il giudizio che ne do. Se io dico: “Dio mio!, la mia mente sta mettendo etichette!”, o se invece sorrido sul suo mettere etichette allo stesso modo di come sorrido sul mio cane che si mette a pancia per aria e si offre per una carezza!
Sul cane sorrido, perché è nella sua natura quel gioco, e perché non doveri sorridere sulla mia mente che etichetta? E’ nella sua natura quella modalità!
Quindi la meditazione non è altro che un grande sorriso sulla vita che attimo dopo attimo accade, ma per sorridere bisogna imparare a non prendersi troppo sul serio; non solo, per sorridere bisogna non essere dei forzati della meditazione, degli stacanovisti della meditazione o della via interiore, o della ricerca spirituale; per poter sorridere su ciò che la nostra mente e i nostri impulsi recitano direi che bisogna essere un pochino scanzonati.
Le persone quando iniziano il percorso interiore sono sempre fortemente motivate, poi, man mano che vanno avanti e vengono lavorate dalla routine, dai processi, dal percorso stesso, imparano ad alleggerire, a diventare più tolleranti; imparano a capire che c’è un prendere confidenza con tanti aspetti dell’essere e della vita e un diventare meno severi, meno arcigni, meno censori.
Da questo alleggerimento nascono poi un sorriso e un’accoglienza per sé, nasce un lasciar andare, nasce una tenerezza e, col tempo, una profonda compassione che è comprensione profonda dei processi e del sorriso sui processi; che è resa alla natura intima della vita e porta in dono con sé lo smettere di brontolare e di protestare.
“Come la persona si ferma nell’atto meditativo”, cosa significa questa frase, bisogna per forza fermarsi fisicamente? Perché non è che esista soltanto una meditazione statica, esiste anche una meditazione dinamica; se la meditazione è semplicemente quell’ascoltare, quell’osservare, quell’accogliere senza giudizio e senza aspettativa ciò che accade, se la meditazione è questo arrendersi, allora questo avviene sia stando fermi che camminando, che muovendosi, che operando. E’ certamente più facile sedersi sulla propria seggiola o sul proprio cuscino ad osservare i processi che accadono dentro e fuori di noi; mentre cammini, lavori o guidi, effettivamente è più complessa l’operazione, ma è soltanto una questione di allenamento.
Una persona che ha iniziato, ad esempio, attraverso la meditazione statica e l’ha frequentata a lungo, pian piano ha cominciato a comprendere che quell’atteggiamento che lì, nella sua solitudine, nella sua immobilità, ormai gli è diventato famigliare, può portarlo anche nel camminare, anche mentre lava i piatti, anche mentre sta sul lavoro, anche mentre guida l’automobile; può farlo.
Meditare è un modo di stare nella vita e non è che la vita la passiamo sopra al nostro cuscino da meditazione: c’è qualcuno che trascorre una parte rilevante della propria vita sul cuscino, altri fanno quello e vivono nel mondo, altri ancora vivono e basta e hanno sviluppato nel dinamismo della loro esistenza una forte consapevolezza, una forte capacità di osservazione di sé; quindi, per carità, ci sono tante vie per quanti sono gli uomini, però, di certo, noi incoraggiamo la persona a sviluppare questo sguardo e questa resa al presente, ma a farlo in ogni momento della sua giornata, nella relazione con l’altro e con il mondo.
Si potrebbero dire tante cose, ma a me non interessa un granché prendere in esame i vari modi di meditare, le varie scuole di pensiero; a me interessa trasmettere questa visione della meditazione come essere vigili e presenti sull’atto che accade, e come atto dell’arrendersi; con questa espressione intendo, lo ripeto, quel non apporre etichetta, non proferire giudizio, quel lasciare che una cosa nasca e subito dopo scompaia.
Quando una persona ha compreso questo, basta, è sufficiente; dopo è solo questione di allenamento, di ritornare, ritornare, ritornare a questa modalità..

La meditazione nel percorso educativo, di Catia Belacchi, Edizioni Psiconline

L’educazione del bambino e dell’adolescente alla relazione col corpo, con le emozioni, con il pensiero, con la dimensione spirituale dell’esistenza.
Suggerimenti rivolti ai genitori, agli insegnanti ed agli educatori per accompagnare i bambini nell’esperienza del silenzio, del calmare la mente, della meditazione.
La pagina del libro su facebook

Indice
Introduzione
Definizione del Sè
Il sé corporeo
Il sé emotivo
Il sé mentale
Il sé spirituale
Incontro a se stessi: la meditazione per i bambini
Il bambino e gli ostacoli alla manifestazione del Sé
Genitori: un’assunzione di responsabilita’
Come contattare i vari aspetti del sé:
Sé corporeo
Sé emotivo
Sé mentale
Sé spirituale
Esperienze didattiche
Il bosco, la strada verso l’autonomia
Il fascino del mare
Sono un sasso del fiume
Rilassamento a coppie
Coloritura di un mandala
I sentimenti
Abbiamo ripensato ad un momento di rabbia
Abbiamo ascoltato il silenzio

Bibliografia
Quarta di copertina

Il libro è distribuito in tutte le librerie  (13,50€);  si può anche ordinare presso di noi allo stesso prezzo.

Per ordinare il libro “La meditazione nel percorso educativo”