Il discernimento tra identità e coscienza

Dice Piero: “Comprendendo il gioco della mente attraverso l’identificazione e non aderendo più a ciò che racconta, come si comprende il sentire “reale” dettato dalla Coscienza rispetto al dire fasullo della mente?”
Quando la coscienza attiva un’esperienza in un ambito in cui ha delle comprensioni già conseguite, il processo è lineare: l’identità ha un certo margine di scelta, può decidere se realizzare quella intenzione nel modo A o nel modo B ma comunque, entrambi i modi, condurranno al risultato che alla coscienza è chiaro.
In questo caso nell’identità/mente non ci sono dubbi particolari ed essa non genera conflitti e problemi di discernimento.
Quando la coscienza si muove invece in ambiti in cui non è sorretta da comprensioni acquisite, il suo procedere è per tentativi: di esperienza in esperienza estrae i dati che le servono fino a quando non ha compreso ciò che le è necessario.
In questo caso, non essendo chiara l’intenzione della coscienza, l’identità/mente riceve una spinta non univoca, non chiara e quindi al suo interno si possono generare conflitti, incertezze, resistenze, opposizioni, approssimazioni.
La situazione durerà fino a quando, attraverso le esperienze, la coscienza non avrà ottenuto i dati che le necessitano.
Quando una mente è preda delle illusioni, delle fantasie, delle proiezioni, dei bisogni fittizi alle spalle di essa c’è sempre una coscienza che sta vivendo un processo di acquisizione di dati, di strutturazione di una certa comprensione.
La mente non si aggroviglia  a caso, lo fa quando non è sorretta da un sentire definito.
Quando la coscienza ha compreso la mente è sufficientemente chiara: quando la mente è chiara indica una coscienza che procede sui binari del compreso.

Immagine da: http://goo.gl/guuXoE


L’identità e la sua scomparsa

Alcuni commenti su Facebook al post sull’esperienza della preghiera mi inducono ad approfondire.
In quell’intervento sostenevo che la preghiera sorge quando scompare il soggetto che prega.
Qui sostengo non solo questo, ma anche che la vita sorge solo quando il soggetto che la vive scompare: finché c’è soggetto non c’è vita, c’è la rappresentazione della vita, cosa ben diversa.
Quando c’è il soggetto? Quando c’è identificazione con il pensiero, l’emozione, l’azione: loro sono me, io sono loro. Quel pensiero è ciò che credo; quell’emozione è ciò che provo; quell’azione è ciò che sono.
Quando non c’è soggetto? Quando quel pensiero è solo un pensiero, vento che va; quando quell’emozione è solo un’emozione, sorge e scompare nel suo essere effimera; quando quell’azione è solo un’azione, atto finale di un processo che è rappresentazione dei processi del sentire.
Quando la persona va dall’identificazione alla scomparsa? Quando è capace di sorridere su di sé; quando conosce la relatività del proprio esserci; quando ha conosciuto l’asino in sé; quando è consapevole del proprio pensare, provare, agire.
L’identificazione non è una sciagura, è una opportunità: vedendomi identificato posso andare oltre. L’identificazione mi apre la porta sul vasto mondo del’essere.
Se sono identificato e non mi vedo non c’è problema, significa che non sono ancora maturo per andare oltre me; se sono identificato e mi vedo allora si apre un mondo sconfinato di esperienze che dall’identificazione mi condurranno, passo passo, all’essere.
L’identità è la nostra chance: quando ne vediamo il limite essa ci libera.
Concludendo: il problema non è nell’identificazione ma nel vederla, nello sviluppare consapevolezza. Se vediamo l’aderire all’identità abbiamo già fatto una parte importante del lavoro.

Immagine da: http://goo.gl/f7wB9y


 

Quando siamo persi a noi stessi

Molte zone delle Marche sono sott’acqua, molte persone hanno perduto molto, alcune la vita.
Ci sono responsabilità precise nel campo della programmazione urbanistica e ci sono responsabilità più generali, non imputabili ai soli cittadini marchigiani, quelle relative al cambiamento climatico.
Parlavo ieri mattina, dopo aver spalato per ore fango, con un terzista – un imprenditore che lavora in campagna per conto degli agricoltori – e convenivamo che nessuno è pronto a ciò che il cambiamento climatico comporta: non gli agricoltori, non gli amministratori, non i cittadini in genere: sembra che i nostri occhi non riescano a vedere l’evidente, a coglierne la portata e a indurci a reagire con prontezza e con la radicalità necessaria.
Osservo con molta attenzione i fatti del mondo, ieri le scene all’Olimpico di Roma, l’intervista a Di Battista del TG3 (di cui scrivo in questo post), i toni di una campagna elettorale irrealistica, pura propaganda di imbonitori di una massa impaurita.
Tutte le volte che l’umano è in preda alla paura e reagisce a questa con l’aggressività, produce mostri.
Quando siamo persi a noi stessi dovremmo evitare di accompagnarci ad altri altrettanto persi a sé stessi: dovremmo sederci e respirare; entrare in una libreria come quella della foto e sfogliare qualche libro che parli dell’essenziale; dovremmo non alimentare in noi ciò che ci oscura lo sguardo del sentire.
Dovremmo, ma a volte, guardando il mondo, mi coglie lo sconforto.

Immagine da: http://goo.gl/mZfAJk


 

Sull’origine del dolore

Discutevo ieri in un altro post sull’originale idea secondo cui la realtà, personale o collettiva, sarebbe spesso, a nostro giudizio, sbagliata.
Preciso che qui dolore e sofferenza sono sinonimi.
Individuerei l’origine del soffrire in due gangli:
– il non compreso nella coscienza;
– l’interpretazione della mente/identità.
Il non compreso nella coscienza genera determinate scene di apprendimento/verifica: là dove alla coscienza mancano dati ed informazioni, quello è soggetto ad indagine, a sperimentazione, a ripetuti tentativi di messa a fuoco.
Siccome durante i vari cicli incarnativi alla coscienza mancano sempre dati, perché se li avesse tutti – se fosse completa nelle sue comprensioni – non darebbe più luogo ad alcuna incarnazione, ecco che l’esistenza dell’umano conosce sempre e comunque qualche forma di sofferenza.
Un determinato sentire, di una data ampiezza, non genera solo scene congruenti, genera anche una immagine dell’attuatore di quelle scene: ovvero i tre corpi (mentale, astrale/emotivo e fisico) che realizzano la scena la interpretano anche.
Ad esempio, durante la giornata mi può accadere un determinato fatto ed io, lo scrivente, posso interpretarmi come vittima di qualcuno, o di qualcosa.
La vittima è colei che subisce un’ingiustizia e questa presunta condizione genera un ampio spettro di emozioni e pensieri conseguenti.
Da una non comprensione della coscienza deriva una certa scena la quale viene interpretata dall’identità in un certo modo: se la coscienza avesse un’altra comprensione di un dato fatto, genererebbe un’altra scena e questa sarebbe interpretata dalla mente in un altro modo.
C’è dunque l’ampiezza del sentire all’origine di tutto il processo.
La capacità di interpretazione propria dell’identità dipende dal modello interpretativo che questa adopera e questo, a sua volta, dipende dall’ampiezza del sentire: il classico serpente che si morde la coda.
Naturalmente la situazione non è bloccata, in qualunque punto del cerchio si intervenga la rotazione può essere cambiata:
– le esperienze della vita modificano il sentire;
– ciò che viene conosciuto, integrato come modello interpretativo, modifica la lettura/interpretazione dei fatti e quindi cambia sia l’insorgere della vittima, o d’altro, che il materiale psichico che solleva.
Conclusione: l’essere umano è uno e pienamente integrato, il conoscerne le dinamiche interne ci aiuterà a fluire con più leggerezza nella vita e con un minore tasso di dolore.
Nessuna vita è condannata alla sofferenza perché in ogni vita le esperienze modificano sia il sentire che l’interpretazione di esso.

Immagine di Gaia Lionello da http://goo.gl/mAS36f