Tratto dal libro: Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, a cura di A. Tollini, Ubaldini editore.
Questo testo è proposto alla comunità dei monaci del Sentiero contemplativo per la loro formazione. Mi soffermerò sul testo di Dogen quando necessario e lavorerò sul commento di Tollini. I miei interventi saranno evidenziati dal colore blu e dal corpo minore.
[7] Le cosiddette “persone illuminate” non sono illuminate fin dall’inizio, né hanno accumulato la grande illuminazioni (cercandola) al di fuori. (Inoltre), la grande illuminazione riguarda un luogo pubblico455 e non è cosa che si incontra in vecchiaia, alla fine della vita.
L’illuminazione è un processo del sentire, non dunque della conoscenza o dell’esperienza in sé, ma della comprensione. La comprensione – frutto dell’esperienza e della conoscenza – è e diviene sentire strutturato, corpo akasico che si struttura.
L’illuminazione altro non è che un corpo akasico (della coscienza) ben strutturato.
Questa strutturazione si manifesta certamente nella vita ordinaria dell’individuo, ma questo può non esserne consapevole.
Questo chiaramente nella logica evolutiva del divenire. La “grande illuminazione” come la chiama Dogen, assimilabile a mio parere al concetto di natura autentica, altro non è che la condizione del sentire ultimo di una Individualità, sentire soggetto ancora a evoluzione ma non derivante più dall’esperienza nel divenire.
Quel sentire è presente in stato di eterno presente e contiene in sé tutti i gradi che lo costituisco, gradi che l’umano sperimenta nelle sue incarnazioni nel tempo.
Nel divenire pertanto sono simultaneamente presenti il sentire totale dell’Individualità, presente in una condizione atemporale, e i gradi che costituiscono questa totalità, gradi che originano – per loro intrinseca logica – lo scorrere del tempo e l’avverarsi delle esperienze.
D’altra parte, non è sicuramente neppure qualcosa che si possa ottenere usando su se stessi la forza.
Questo della forza/volontà è un tema che abbiamo già affrontato nei post precedenti: la via e le sue pratiche sgorgano più dal sentire che dall’adesione a dei principi e a delle discipline.
Non perdersi nello smarrimento non è la grande illuminazione.
Il monaco ligio e interiormente equilibrato non necessariamente risiede nella grande illuminazione, non essere smarriti non è garanzia di niente, come un certo grado di smarrimento temporaneo non dimostra niente.
Per favorire la grande illuminazione non è necessario fingere di diventare una persona che prima si smarrisce. Proprio come le persone della grande illuminazione diventano (ancor più) illuminate, così le persone della grande illusione diventano illuminate.
Tutta l’acqua va al mare e il fiume non compie uno sforzo per condurla: vite nell’ignoranza non rimangono tali per sempre, ogni esperienza diviene comprensione, questa sentire, il sentire liberazione.
Così come vi sono persone della grande illuminazione, vi sono anche Buddha della grande illuminazione, vi è la terra, l’acqua, il vento e il cielo della grande illuminazione e vi sono i templi buddhisti e le lanterne di pietra della grande illuminazione.456
455 Cioè: la grande illuminazione è cosa cui tutti possono accedere, come in un luogo pubblico.
456 Ogni cosa è la grande illuminazione.
COMMENTO (Tollini)
[7] La prima frase di questa sezione è la più importante. Dice: “le cosiddette “persone illuminate” non sono illuminate fin dall’inizio, né hanno accumulato la grande illuminazioni (cercandola) al di fuori”. Ciò significa che sebbene l’illuminazione pervada chiunque, non vuol dire che le persone illuminate lo sono state fin dall’inizio senza fare nulla, ovvero senza cercare l’illuminazione.
È, in altre parole, ciò che intende nel testo Sokushin zebutsu dove dice:”Ascoltando i discorsi sul sokushin, le persone ordinarie pensano che il Buddha sia la coscienza pensante e la conoscenza tramite la percezione delle persone ordinarie il cui bodhaishin non si è ancora risvegliato. Questo succede perché queste persone non hanno ancora incontrato il maestro giusto”.
È necessario il risveglio del bodhaishin (il desiderio di giungere all’illuminazione) e in conseguenza di questo ci si deve mettere sulla via della ricerca e della pratica. Questa ricerca non deve rivolgersi all’esterno, ma al proprio interno. La grande illuminazione è patrimonio di tutti e non è nascosta, quindi non va cercata in luoghi remoti o in modo esoterico. Inoltre, non va cercata in vecchiaia o alla fine della vita, perché allora è troppo tardi.
Il desiderio di giungere all’illuminazione: concetto alquanto relativo. Se interrogo tutti i monaci del Sentiero contemplativo, scopro con certezza che nessuno di loro è mosso da questo desiderio, ma non solo: la gran parte di loro non sa nemmeno perché è nella Via.
Questo dice che sono inconsapevoli? Direi che dice che sono portati da un moto interiore inconscio, spinti dal sentire, e a quello si conformano.
La ricerca della Via non deve avvenire usando su se stessi la forza; come dice nel Fukan zazengi: “Nessuna cosa è separata da questo luogo, ciononostante, la gente si sforza per la pratica”.
La pratica è illuminazione e quindi non richiede lo sforzo che sarebbe necessario per una pratica intesa come mezzo per raggiungere una meta. La pratica è la meta stessa, essa è in sé il suo stesso fine, quindi non richiede sforzo.
La pratica è illuminazione perché nella pratica si riconosce/sente il Ciò-che-È, Esso diviene l’unica realtà: l’umano effimero scorre come le immagini sullo schermo del Ciò-che-È. Se togli lo schermo le immagini non hanno più dove scorrere, ecco che il praticante è colui che sceglie dove appoggiare la consapevolezza: nella pratica – non solo nello zazen, nella pratica diffusa – la consapevolezza risiede sul sentire/illuminazione/Essere.
La pratica altro non è che la decisione del dove appoggiare la consapevolezza.
È la decisione di un soggetto, c’entra la volontà? In parte, ma in grandissima parte è come il ramo che si lascia portare dalla corrente: il sentire coltiva la consapevolezza di sé stesso.
Sempre meno l’individuo dipende dagli stimoli sensoriali, sempre più lo sguardo si fa interiore: praticare/vivere è Essere. Questo significa che la pratica è illuminazione.
Inoltre, non si confonda la grande illuminazione con il non perdersi nello smarrimento: non esiste una grande illuminazione in negativo, cioè corrispondente alla negazione del suo opposto. E, del resto, non è necessario fingere di smarrirsi per poi raggiungere l’illuminazione. Ci sono persone illuminate che aumentano ancor più la loro illuminazione e la rendono più grande, ma anche persone che dall’illusione passano all’illuminazione.
D’altra parte, come dice nel Genjô kôan, “vi sono persone che aggiungono illuminazione a illuminazione e persone che stando nell’illusione continuano a restare nell’illusione”. Ma l’illuminazione sta ovunque: negli uomini, nei Buddha, nei templi buddhisti, negli elementi naturali, attraversa e permea tutta la realtà e ovunque può essere cercata e fatta propria.
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Desiderio di giungere all’illluminazione senza cercare l’illuminazione. Sintetizzo questo da quanto riportato
Grazie al commento di Uma questo post è reso comprensibile secondo la visione del Sentiero.
La grande illuminazione, se non ricordo male nello Shoboghenzo è intesa come ” ab origine” , come buddita’, che appartiene a tutti da sempre, quindi è giusto definirla anche natura autentica.
L’illuminazione, pur possedendola tutti come natura autentica, deve comunque diventare cosciente e questo avviene, non come suggerisce Tollini perché spinti dal desiderio di diventare illuminati , ma come dice Uma, essa si raggiunge ampliando il sentire.
La grande illuminazione si raggiunge, nel divenire, quando la individualità ha completato tutto il suo sentire che nell’eterno presente è già.
Grazie