limiti

Nel Sentiero, mettiamo in evidenza solo il negativo dell’umano?

Scrive un’amica: “Mi sembra che sempre più questo cammino sia caratterizzato da quegli aspetti e parole della vita più “desertici” (disarmonia, dolore, sofferenza, eccessi, errori, distanza, freddezza a volte, fatica, incomprensioni….), come se gli aspetti più gioiosi, pacificanti, frizzanti, divertenti e perché no, anche premiativi dell’esistenza, siano marginali e comunque di nessun valore educativo ed evolutivo”.
E’ un’osservazione importante, che certamente coglie un aspetto del nostro procedere.
Perché parlo, in prevalenza, degli aspetti più difficili, più duri, più scarni dell’esistenza? Perché il limite è il centro della nostra elaborazione?
Perché il limite è ciò che appesantisce le vite delle persone ed è la porta per la libertà.
Perché il limite attiva il processo della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione.
Non c’è consolazione nel nostro cammino? In effetti ce n’è poca. Perché?
Perché se possiamo dare, e sottolineo il se, un contributo al cammino di conoscenza, emancipazione e liberazione delle persone, lo possiamo fare a partire da ciò che nella loro vita rappresenta un ostacolo; di conseguenza parliamo degli ostacoli e delle potenzialità di cui essi sono portatori.
La visione del Sentiero è, nella sua radicalità, piuttosto semplice: la libertà si trova nel quotidiano attraverso l’esperienza delle nostre limitazioni.
Non servono dunque a niente gli stati di armonia, di gioa, di pacificazione?
Non servono per una ragione molto semplice: non hanno una funzione di servizio, ma di strutturazione; per loro natura testimoniano una trasformazione avvenuta, realizzano una piattaforma di sentire a partire dalla quale si attiveranno nuovi processi messi in atto dal limite che ci pungola.
Hanno importanza gli aspetti premiativi, le gratificazioni? Certamente, tutti lo sappiamo, tutti sperimentiamo il loro valore di supporto, di consolazione, di incoraggiamento.
L’autore dei post del Sentiero, vede le difficoltà e il disorientamento delle persone;
non è interessato a parlare di sé, della propria libertà dal condizionamento;
è mosso da una compassione profonda per il cammino esistenziale delle persone e cerca, per come gli è dato, di essere loro d’aiuto.
Invece di aiutarle, le deprime perché mostra un mondo fatto di limiti, di cadute, di difficoltà, di deserto?
Può darsi che questo accada, ma mi permetto una domanda:
perché il lettore non coglie la compassione che attraversa tutto il nostro dire e il nostro operare?
Perché non sappiamo esprimerla e, forse, perché non permea sufficientemente la nostra vita e i nostri scritti? Può darsi che sia cosi.
Può anche darsi che il lettore risuoni su quella che in effetti è la sua condizione e viva un moto di rifiuto per noi che è simbolo del rifiuto per sé.
Forse non vede la compassione e l’amore senza condizione che il nostro scrivere porta, perché il riverbero di un proprio disagio provocato dal nostro scrivere, lo focalizza sulla propria difficoltà, sul proprio compito, su ciò che l’attende nella sfera esistenziale. Può darsi anche questo.
Vi chiedo: se uno scritto non serve a mettervi a nudo, a confrontarvi con voi stessi, a cosa serve? Forse penserete che dovrei equilibrare portando contenuti positivi, esperienze di edificazione, esempi e metafore che sostengano in positivo il vostro cammino quotidiano. Ne è pieno il web; ne sono pieni i libri; ne traboccano gli insegnamenti dei “maestri”, non vi manca il materiale, credo.
Mi interesso al letame umano e ve lo propongo come la via alla libertà: questo mi riesce, altro mi rimane difficile.
Per parlare dell’armonia, della gioa, della meraviglia, della vita pregna di senso dovrei scoprirmi, dovrei parlare di me, del mio vivere che quello è.
Non lo farò. Né citerò altri che quello hanno vissuto, perché avendo una sorgente interiore non si capisce perché dovrei andare a prendere l’acqua da un’altra parte.
Concludo dicendo: a mio parere le persone hanno bisogno di trovare nel limite che sperimentano, una possibilità, non un impedimento.
Di questa possibilità sepolta sotto il letame noi parliamo, spinti dall’amore per l’altro.

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karma

Karma, possibilità, compassione

Come occidentali, siamo cresciuti nell’humus cristiano intriso del concetto di colpa e di punizione.
Più o meno inconsciamente, associamo il karma alla punizione e non abbiamo ancora sviluppato né una cultura del karma, né quella di una vita che mai è da vittime meritevoli di essere punite.
E’ ancora acerbo il paradigma delle possibilità: la vita come possibilità di comprensione senza fine; il karma come la legge che governa il cosmo e che apre possibilità di esperienze finalizzate al comprendere.
Siamo ancora lontani da questo e dovremo sviluppare una riflessione più approfondita sulla legge di causa ed effetto: da chi è generata la causa?
Dalle necessità di comprensione della coscienza, che genera le situazioni d’esistenza in relazione al compreso e al non compreso.
Qual’è il fine dell’effetto? Offrire ulteriori scene d’esperienza per permettere il realizzarsi delle comprensioni avviate dalla coscienza.
E’ chiaro che tra causa ed effetto esiste il nesso della responsabilità: “sono responsabile del cammino di comprensione, delle sue dinamiche, del suo svolgersi, del suo evolversi all’interno della dinamica causa-suo effetto”.
Quand’è che sono responsabile, quando si attiva la legge di causa-effetto?
In tutti i casi, o solo quando sono consapevole delle possibilità, quando opero A ma potrei anche operare B?
Solo quando in me esiste la possibilità consapevole di una scelta, ovvero quando le comprensioni acquisite mi offrono la possibilità di più alternative.
Se non ho comprensioni tali da avere alternative, scelte possibili, il mio agire non attiva la legge di causa ed effetto.
Quindi il karma si attiva quando, ad esempio, scelgo B pur avendo la possibilità di scegliere A: se ho scelto B, evidentemente in me c’è ancora una comprensione non giunta a pieno completamento, avendo io anche la possibilità di comprendere A; ecco allora che l’intervento del karma mi offre la possibilità di approfondire, di fare altre esperienze finché la comprensione non sarà completa.
Cosa questo significhi nelle nostre vite, credo che ciascuno di noi lo sappia molto bene: il karma ci induce alla responsabilità, all’accoglienza dei nostri percorsi esistenziali, alla compassione sul nostro e altrui procedere.

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contemplazione

Evolve chi?

Prendo lo spunto da questo bel post di U. Ridi.
Ad una percezione ordinaria, sembra che tutto sia conseguenza di qualcosa e dia origine a qualcos’altro.
Sembra che il divenire del tempo, delle condizioni ambientali, sociali, esistenziali, sia la norma.
Questa sembra essere la realtà, ma lo è? E’ reale questa percezione, o è un’illusione?
Come appare la realtà dall’interno dell’esperienza contemplativa dove la presenza del soggetto si stempera fino a scomparire?
Appare come accadere di fatti.
Fatti che non si susseguono, ma che sono.
Fatti senza tempo e senza qualità.
Fatti senza scopo.
C’è una dimensione d’esistere e d’essere che poco ha a che fare con il divenire, molto con l’assenza di sé, l’irrilevanza, l’essere senza connotazione.
Conduce questa esperienza ad un alienazione dal reale? Viene meno il nostro compito incarnativo, l’imparare sporcandosi le mani? Diveniamo come funghi, infine?
Domande ascoltate mille volte, proprie delle menti che non riescono a concepire la realtà che per opposti: o l’incarnazione, o la contemplazione!
Poveri noi.

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emancipazione

Emancipazione sociale ed esistenziale

Esiste una emancipazione economica, politica, sociale, culturale che non sia innanzitutto emancipazione interiore?
Le condizioni esteriori non rispecchiano quelle interiori?
Cambiando le condizioni interiori, cambiano quelle esteriori: cambiando le necessità della coscienza, cambiano gli scenari che la stessa crea.
La coscienza crea la realtà nella quale la mente, l’emozione e il corpo (l’identità) sperimentano: il conflitto tra coscienza ed identità, genera la malattia; una necessità di comprensione della coscienza, genera la povertà; un bisogno di comprensione, genera la sopraffazione.
Tutto questo è assurdo se non si entra nell’ottica che ciò che consideriamo reale, è il teatro di una rappresentazione: quella del cammino di conoscenza, consapevolezza, comprensione delle coscienze.
Ciò che appare è il simbolo inequivocabile del compreso e del non compreso: le povertà, le guerre, le ingiustizie parlano di non comprensioni di singoli e di popoli.
Il fronte è dunque quello del lavoro sulla conoscenza, sulla consapevolezza, sulla comprensione: nel mondo, nel quotidiano, nelle relazioni.
Vivendo si trasforma il proprio essere: semplicemente vivendo l’essere carnefice e l’essere vittima, si va oltre quelle condizioni.
La vita basta a se stessa ed è un incredibile processo di liberazione che si attua semplicemente accertando di viverlo.
L’ingiustizia è l’altro volto della giustizia: conoscendo l’uno si realizza l’altro.
Ma, se si guarda al limitato numero dei nostri giorni terreni e non si entra in un’ottica molto differente, non si possono che ritenere assurde queste nostre parole: se si mette al centro il cammino di una coscienza e non lo si confina nel limite temporale di una vita umana, allora si apre un orizzonte di comprensione molto vasto.
Una coscienza struttura il proprio sentire, compie il tragitto da ego ad amore in un lasso di tempo diverso da quello umano e comunque molto vasto: quando il proprio sentire è costituito, non ha più necessità di sperimentare nello spazio-tempo umano e cessa di generare rappresentazioni umane, vite.
La strutturazione del sentire della coscienza avviene attraverso le esperienze: ogni coscienza sperimenta la condizione di povertà, di violenza, di oppressione e sopraffazione e, pian piano, di progressiva liberazione dal dolore, dall’ignoranza, dall’egoismo.
Tutti (tutte le coscienze) siamo stati, o saremo, migranti; tutti siamo stati violentati; tutti siamo stati discriminati e attraverso quelle esperienze abbiamo realizzato la nostra emancipazione esistenziale.

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