Un giorno nuovo

Coloro che vivono una malattia che mina le basi della loro esistenza sanno che cos’è un giorno nuovo.
Noi sembra che non lo sappiamo, mi verrebbe da dire che lo abbiamo dimenticato ma è un’espressione inappropriata: non lo abbiamo ancora imparato, scoperto.
Vivendo noi non nella vita ma nel racconto di essa, molte cose non abbiamo ancora sperimentato.
Il giorno nuovo che viene non è una opportunità, una possibilità: finchè è questo, sono io il centro dell’accadere e quel giorno mi porta qualcosa che mi renderà diverso.
Questo modo di guardare alla vita ha senso fino ad un certo punto del nostro cammino, in seguito altro si presenta: il giorno che viene è un accadere, un fatto.
Come tutti i fatti non è per me, né per te: accade e può essere usato per i fini del proprio processo esistenziale, ma può anche essere solo contemplato.
Contemplarlo significa lasciarlo lì, non ricondurlo a sé, liberarlo di tutto ciò che la mente può aggiungervi:
un giorno nuovo è un giorno nuovo.

Immagine tratta da:http://www.linkiesta.it/donne-festa


 

Nessuno procede da solo: il “prendersi cura”

Pur essendo la realtà soggettiva, il film personale, la trasformazione del sentire avviene nella relazione con l’altro da sé.
Quest’altro è la natura, l’ambiente nel quale si svolge la rappresentazione che chiamiamo vita; è il nostro partner, i nostri figli, i nostri genitori, il nostro collega di lavoro, il vicino di casa.
Nessuno procede nel cammino della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione da solo: la vita è un grande processo comunitario, perché rimane così complesso alla persona di questo tempo comprenderlo?
E perché anche quando lo comprende non riesce a sviluppare una adeguata prassi comunitaria e rimane “protetta” dietro un velo, una sorta di riserva oltre la quale è pericoloso andare?
Perché è così difficile la pratica del “prendersi cura”?
E’ la paura di perdere che ci trattiene? Il non voler affrontare la fatica dell’incontro? E’ la stanchezza dovuta alla troppa esposizione che, una volta concluso ciò che dobbiamo fare, ci conduce ad un isolamento per ritrovarci e rigenerarci?
L’incontrare l’altro è un gesto semplice, non è necessario nulla di eclatante: un saluto, una piccola cortesia, una riga, uno squillo, una minuta collaborazione.
Questi piccoli gesti avviano una danza che non ci travolgerà, che potremo gestire secondo le nostre necessità, ma avremo aperto un canale di comunicazione, un flusso, un processo: avremo oltrepassato il muro.
“Prendersi cura” è la chiave.

Immagine tratta da: http://goo.gl/ruYRKn


 

Vivere ciò che fonda un’esistenza

Abbiamo camminato a lungo ieri con P. discutendo di tutto ciò che fonda e conferisce senso ad un’esistenza.
E’ piovuto molto in questi giorni, la strada è piena di pozzanghere e in qualche punto è sceso del fango dai campi.
I nostri passi scorrevano tra i campi di grano verde intenso e le querce ancora spoglie che bordano le strade.
Vivo queste scene da venti anni, sempre c’è stato qualcuno con cui camminare, sempre si è potuto parlare, o tacere, della vita e del modo di viverla senza essere racchiusi in uno scafandro, o immedesimati in una commedia.
Qui, nell’eremo, lontani esistenze dal mondo, i gesti e le parole, gli incontri e i passi respirano ciò che non subisce l’usura del tempo, non viene rosicchiato dai tarli, non ammuffisce, non è divorato dall’ingordigia delle menti.
Non è merito nostro, è accaduto e continua ad accadere grazie a coloro che, spinti da una domanda, vengono e permettono che la vita senza condizionamento accada.

Immagine tratta da: http://goo.gl/9n7RRA


 

Il lavoro 3: la mansione, e chi mi lavora a fianco, mi trasformano

Il lavoro è relazione: per giorni, mesi, anni abbiamo al fianco delle persone con cui trascorriamo più tempo che con la nostra famiglia.
Chi sono costoro? Parlano delle loro vite, li ascolto? Sollevano in me sensazioni, moti di simpatia e di antipatia, fascinazioni e avversioni, giudizi senza fine, gelosie, ammirazioni, paure.
Otto ore al giorno la presenza dei miei colleghi di lavoro suscita in me una infinità di processi di svelamento, di messa in discussione, di crisi anche.
Se voglio vestire i panni del giudice posso farlo e dispenserò sentenze: se voglio osservare che cosa, attraverso il lavoro comune, l’altro produce nel mio interiore mettendomi a nudo, posso fare anche questo. Posso scegliere.
Qualunque sia il mio ruolo, la mia mansione, l’ambiente di lavoro è un organismo che pulsa insieme e produce processi nell’intimo dei singoli: il fare, il produrre è il collante, ciò che tiene insieme l’organismo, ma ciò che viene lavorato va ben oltre il manufatto prodotto: ciascuno lavora il proprio interiore grazie a come lavora e a con chi lavora.
Ciò che ci cambia è sempre la relazione: tra noi e il lavoro che eseguiamo; tra noi e chi ci lavora a fianco.
La nostra e altrui trasformazione interiore è il vero scopo del lavorare: come sciocchi crediamo che lavorare sia produrre qualcosa, ma non è così: lavorare è trasformare noi stessi grazie alle mansioni e alle relazioni molteplici che nel corso della giornata prendono corpo.

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