Conoscenza di sé, consapevolezza, comprensione

Non di rado tutto inizia con il dolore: il disagio interiore che proviamo e che può avere cause psicologiche o esistenziali diventa talmente pressante da invadere il nostro quotidiano: quando non ci permette più una vita cosiddetta normale, in noi nasce la spinta al superamento di quello stato e quindi al cambiamento.
Naturalmente le strade per giungere a questo punto sono tante e non necessariamente condizionate dal dolore.
Sempre, quando avvertiamo la necessità di cambiamento questa è determinata da una situazione pregressa ormai alla fine e da una nuova verso cui ci sentiamo sospinti e che non sappiamo cos’è.
La base di ogni cambiamento è la conoscenza di sé, lo sviluppo di alfabeti che ci permettono di decodificare il nostro pensiero, la nostra emozione e le nostre azioni.
La necessità, la spinta al cambiamento si impatta con gli strumenti della conoscenza di noi che ci appartengono: maggiore è la dotazione strumentale, più rapido e più vasto sarà il processo di trasformazione.
Più inconsapevole di sé è la persona e più tempo e fatica saranno necessari: normalmente è così ma non è un assoluto e questo principio può essere ampiamente smentito da percorsi originali.
Come avviene la conoscenza di sé?
Attraverso l’osservazione della propria manifestazione e dei segnali di ritorno che l’altro da noi ci manda: vedo che cosa esprimo, sento, penso e osservo che cosa giunge come reazione dall’altro a ciò che ho espresso.
Dentro la relazione mi conosco, fuori della relazione è molto probabile che io ripeta i miei meccanismi senza fermarmi. La relazione è la mia insegnante, l’altro il mio maestro: se sono disposto ad imparare e non punto il dito sull’altro dicendo:”E’ sempre colpa tua!”, allora posso cogliere l’importanza di quell’essere che la vita mi ha messo a fianco come amico, compagno, collega; posso vedere che lui è lo specchio in cui vengo riflesso e quindi non mi arrabbio con lo specchio ma prendo atto che parla di me, per quanto sgradevole sia quel parlare.
Quindi la conoscenza di sé appoggia essenzialmente sull’osservare e sull’osservarsi, ma perché questa osservazione possa essere è necessario che ci sia consapevolezza, cioè che la mia attenzione non sia vaga ma focalizzata sulle scene che mi accadono.

Vivere è conoscere, comprendere, essere e manifestare la natura dell’Assoluto

L’esperienza dell’illuminazione è lo splendore della Vita in atto
La vita è sempre se stessa, completa, mai frammentata: è atto d’essere e di manifestarsi anche quando appare come piccolo tassello. Questo è evidente nell’esperienza della contemplazione.
Allora perché ai nostri occhi appare come un divenire che solo nel tempo e nella trasformazione può essere colto nella sua pienezza?
Per noi (1) la vita è un grande film di cui cerchiamo, quando va bene, di cogliere la sceneggiatura e le intenzioni del regista. Noi guardiamo lo scorrere del film, siamo interessati al suo dipanarsi; non siamo attenti a ciascuna scena, ciascun fotogramma, ci sembrerebbe di perdere il senso perché per noi il senso deriva dal narrato nel suo divenire. Un singolo fotogramma è per noi relativo, il narrato e il narrare è invece molto rilevante.
Il problema è proprio qui, nella nostra disposizione al divenire dal passato al futuro passando per il presente che ha senso come compimento di un qualcosa di accaduto e come premessa di un qualcosa che accadrà. Cogliamo il movimento, la tensione, e la nostra attenzione è su questa tensione a divenire, non sul fotogramma che abbiamo davanti in quel momento.
Appoggiare la nostra attenzione esclusivamente sul momento presente ci sembra un modo di rinunciare al processo del vivere; per noi vivere è divenire, trasformarci, migliorare, imparare.
Nella visione comune delle menti il presente è compreso come inevitabile ma statico: solo la tensione passato-presente-futuro dà senso ad una mente.
Eppure, da un altro punto di vista, da quell’angolo visuale che è proprio di chi ha sperimentato tutto questo con gli occhi della contemplazione  e ne ha colto la non realtà, le cose stanno in modo esattamente opposto.
La vita accade solo nel presente: il movimento, il divenire, la successione, i processi appartengono all’opera interpretativa compiuta dalla mente, non sono un dato di realtà.
La vita manifesta se stessa innanzitutto nell’accadere presente, in quell’accadere ha una valenza oggettiva; fuori da quell’accadere è interpretazione soggettiva perché ciascuno può connettere il presente ad un altro presente o al passato o al futuro come meglio gli aggrada, in base alle sue strutture interiori.
La vita è veramente vita e non interpretazione solo nel suo accadere adesso. Chi ha compreso questo inizia il lungo lavoro dell’imparare a disporsi all’incontro con il presente.
Ora va compreso che non è la vita che si dischiude nel presente, ma è colui che “crede” di viverla, che si interpreta come il vivente, che affina la sua capacità di visione e di comprensione.
L’atto del vivere è un processo del senziente, non della vita che in sé è quel che è: eterno presente di singoli fatti.
Colui che “sente” vive un processo di relazione, interpretazione, comprensione di ciò che accade dentro e fuori di sé; i primi passi di questo processo lo vedono impegnato nel tentativo di definire e delimitare il suo confine, di difendere ed affermare il suo diritto ad esistere come entità definita e separata.
Ma quando il proprio diritto ad esserci è consolidato, quando l’affermazione di sé è sufficientemente compiuta (questo nell’arco di una vita/manifestazione o nello spettro di innumerevoli manifestazioni) che cosa accade?
Quando l’ansia del proprio esserci si stempra, quando le domande si placano e la propria centralità passa in second’ordine, che cosa affiora?
Quello che c’è sempre stato ma che mai abbiamo visto e vissuto perché troppo impegnati nella manifestazione di noi, nel vivere quella tensione a divenire: affiora la vita!
E che cosa è la vita?
Uno scorrere di fatti: un pensiero è un fatto, un’emozione è un fatto, un’azione è un fatto, che siano nostri o dell’altro, o della natura. La vita accade come fatto che ora nasce e ora muore, ora nasce e ora muore.
Ogni volta che un fatto nasce e si presenta alla percezione (nasce proprio perché viene percepito) è nuovo, mai prima accaduto, ma la mente lo interpreta alla luce di ciò che ha già vissuto; lo giudica e lo connette ad altri fatti che appartengono al suo vissuto.
Quel fatto diviene soltanto un fatto tra i tanti, in una successione lunghissima di fatti più o meno coerenti tra loro.
Quando la persona si placa nella sua ricerca di affermazione, definizione e senso, può cominciare ad aprire gli occhi sui singoli fatti che le si presentano, senza avere la necessità di indagare, spiegare, connettere fatto a fatto.
Ma quando un pensiero, un’emozione, un’azione sono vissuti per quel che sono, quando non portano con sé un passato e non si proiettano in un futuro, che cosa diventano? Diventano fatti, qualcosa che accade adesso e subito lascia il posto a qualcos’altro che accade adesso e il precedente è già scomparso. Costantemente, inarrestabilemente il nuovo sorge alla percezione e scalza e sostituisce il vecchio che se non è trattenuto dal “voler ricordare” e dal “voler ricondurre a sé”, subito non è più. La realtà del presente è sempre nuova se non viene attribuita ad un soggetto ma viene lasciata alla vita.
Quanto è profonda la realtà, la natura di un fatto? Quanto può essere percepito di un evento presente, quanto si dischiude alla fruizione, comprensione, contemplazione?
La realtà è un processo di svelamento: l’osservazione, la meditazione e la contemplazione sono gli strumenti dello svelamento.
La persona identificata nei suoi processi coglie la realtà attraverso i sensi fisici, attraverso il sentire emotivo, attraverso la capacità cognitiva.
Più la persona impara a disidentificarsi dai suoi processi, più emerge un’altra comprensione della realtà basata sull’intuizione e su di un “sentire” che non è legato alla sfera emotiva.
Non è corretto parlare di profondità della realtà, è invece corretto parlare di profondità dello sguardo sulla realtà: il reale può essere compenetrato fino a livelli inimmaginabili di esperienza.
Può essere compenetrato o ci compenetra? Siamo noi che penetriamo nelle viscere della realtà oppure, nel momento in cui ci disponiamo al presente sapendo che è l’unica realtà che esiste e lo osserviamo, lo consideriamo come il rilevante, la vita che accade, lì, in quel gesto, apre un varco nella mente sempre protesa e ci offre la possibilità del sorgere della visione contemplativa?
Quella visione ci compenetra, giunge a noi, non possiamo evocarla. Ma il termine giunge è riduttivo, quella realtà è sempre stata lì, ora testimonia il suo essere: “Sono sempre stata qui e tu non mi hai mai visto, ho sempre parlato del mio esserci e tu eri soltanto attento a definirmi e a comprendermi!”
Quando noi ci disponiamo al presente senza aspettativa e giudizio, senza connetterlo a ciò che è stato e sarà, quel presente si manifesta a noi in maniera tanto più grande quanto più noi ci abbandoniamo ad esso.
Più è profonda la resa dell’osservatore al fatto che accade (pensiero, emozione o azione), più l’osservatore è disposto a farsi investire, a lasciare che la vita si manifesti a lui, più la vita lo invade, lo compenetra, lo impregna del suo essere altro, mistero inconoscibile, sacralità, stupore, infinita profondità e vastità.
Quando sei davanti a qualcuno che ti porta il suo mondo interiore ed esteriore, ti impatti con tanti “fatti” che l’altro porta e con altrettanti “fatti” che sorgono nel tuo interiore.
Tutto questo è vita che si manifesta, è ciò che definiamo “ la realtà che canta se stessa”.
E’ quello, oggettivamente: realtà del pensiero, dell’emozione, dell’azione.
Quella realtà, se la interpreti, la giudichi, diventa altro da ciò che è; diventa interpretazione, non è più un fatto e basta, ma un fatto interpretato, connotato personalmente: non è più realtà.
Ma se non la interpreti essa è se stessa, priva di connotazione, è quello che è, quello che è, in un attimo eterno.
Percepire, osservare, arrendersi ad un fatto nel suo essere ciò che è, attiva il “presentarsi” della vita, l’esplodere della vita, lo straripare della vita in quanto forza in atto in quel momento presente, eterno: è un evento possibile perché l’osservatore si è ritratto; non emettendo giudizio, non coltivando aspettativa è diventato il “percettore”, colui che non introduce interpretazione.
Che cosa significa che la vita esplode?
Significa che la realtà è sovrabbondante di senso, di significato, di pienezza, di pregnanza: la realtà nel suo essere piccolo insignificante fatto, quando non è connotata diventa così pregnante da risultare quasi insopportabile, da costringerci a distogliere lo sguardo perché troppo grande e vasta per la nostra capacità di recepirla; il veicolo, l’osservatore, il percettore, possono risultare non adeguati al flusso che li investe.
E che cosa accade quando, giorno dopo giorno, ora dopo ora, tu vieni sempre di più invaso dalla realtà, quando cioè ti metti in quella condizione in cui, al tuo osservare, la realtà giunge senza impedimento, senza filtro?
Accade che la realtà si fa spazio e piega la mente, piega l’emozione, piega il corpo e piega l’essere tutto intero quando lo attraversa, quando lo colpisce, quando lo impatta.
La realtà attraversa l’essere e lo disaggrega, lo trasforma da un lato, lo scompone e dissolve dall’altro.
L’essere che viene attraversato dalla vita che gli si presenta di fronte, perde inesorabilmente la propria connotazione d’individuo, perde la propria separatezza, fondamento della propria individualità.
L’essere attraversato scompare nella autointerpretazione che lo definisce; l’attraversato non è più in grado di unire le tessere del puzzle che un tempo pensava lo costituissero. Vede frammenti, vede aspetti, vede emozioni, pensieri, azioni, ma non riesce a dire “sono miei!”
L’essere perde questa capacità di dire:” C’è un qualcuno con un corpo, un sentire, un pensare e questo ha un nome”; perde la capacità, tutta artefatta ed illusoria, di tenere assieme un qualcosa che mai è stato assieme ma che, dentro al processo di interpretazione e nella identificazione con esso, secerneva quel senso di esserci come qualcuno.
C’è un corpo, c’è un sentire, c’è un pensare ma non c’è chi si attribuisce tutto questo. Il corpo è solo corpo; il sentire è solo sentire; il pensare è solo pensare.
Sono fatti che accadono, sono della vita, appartengono alla vita non a qualcuno che li riconduce a sé.
Ecco allora le condizioni per il dilagare della vita: tutto è vita in atto, che si compie, che si manifesta e nel farlo, è senza confine, senza delimitazione. Non è l’apparire delle forme che sostanzia la separazione, è il sentire della personalità o dell’osservatore che genera l’esperienza della frammentazione e della dualità.
In quella sequenza di fatti che si manifestano, ogni fatto è compiuto in sé, ciascun fatto canta la natura dell’Assoluto. Nessun fatto è frammento, ciascun fatto è l’Assoluto in atto.
Tutti i fatti sono Assoluto in atto e sono compiuti in sé senza connessione tra fatto e fatto: l’atto del connettere i fatti genera la realtà illusoria della mente, crea il film dell’esistenza così come l’uomo lo interpreta.
L’unitarietà del reale è esperienza inconfutabile: tutto è ciò che è, ogni singolo fatto è compiuto in sé, è Totalità ed Unità in atto.
Quell’esperienza che noi definiamo illuminazione è il processo, in alcuni lungo, in altri breve, in alcuni consapevole, in altri inconsapevole, di questo “presentarsi” della realtà e di questo scomparire dell’atto di interpretarla.
Questa esperienza non può essere descritta come vuoto o come non-essere: questa è l’esperienza della vita che canta se stessa e, quando questo accade, non c’è qualcuno che dice: “C’è la vita e io non ci sono più!”
Quell’io è stato integrato e trasmutato e dissolto; quello che era un “io” ora è la “vita che canta se stessa”.
Non c’è più frammentazione, separazione: ora c’è la vita.
Se la questione non è quanto noi possiamo compenetrare e comprendere la realtà ma è, come dicevamo prima, quanto la realtà con il singolo fatto presente ci impatta e ci attraversa, allora è chiaro che parlare di illuminazione come di un evento definito non ha senso.
Si può parlare della realtà che oggi mi si presenta così e mi attraversa; domani mi si presenta in altro modo e mi attraversa; giorno dopo giorno lei si presenta e quello che definivo “io” scompare, travolto, dissolto.
C’è un tempo in cui quella dissoluzione è completa? Sarebbe come a dire: “C’è un giorno in cui l’Assoluto è in piena, totale manifestazione? Tutti i giorni, tutti gli attimi, in ogni “fatto”!
Posso sapere, posso valutare, posso misurare questo presentarsi della realtà, questo impattare, questo attraversare? Posso sapere e vedere quanti residui di mente rimangono dopo l’impatto, dopo miliardi di impatti?
Non c’è risposta a queste domande e non credo che ci sia soddisfazione per i misuratori di illuminazione. C’è la possibilità di osservare la vita che si presenta nelle nostre esistenze e non bussa, non bussa più: al gesto del suo bussare solo tu sapevi se la stanza risuonava in assenza di qualunque ingombro e alla fine, in fondo, non sapevi nemmeno questo perché tu eri così piccolo e insignificante che proprio non ti ponevi il problema se c’eri ancora o se non c’eri più.

Solstizio d’inverno 2008

1-Ci rivolgiamo a quelle persone che si approcciano ad una via spirituale e questo discorso può avere un senso per loro proprio perché si stanno approcciando: per altre persone, in un’altra stagione del loro sentire, che precede o segue la fase dell’approccio, questo discorso non è attinente.

Conoscenza, consapevolezza, comprensione

Tratto dal volume “La farfalla” del Cerchio Ifior, pagine 259-260

Il cammino che compie l’individuo nel corso del suo processo evolutivo va dallo stadio della inconsapevolezza ad uno stadio di sentire. Nell’arrivare a questo estremo, a questo opposto, l’individuo – incarnandosi più volte nel mondo fisico – ha bisogno di effettuare una sorta di processo interiore per arrivare ad abbandonare la sua inconsapevolezza e raggiungere il proprio sentire.
Questo processo è costituito essenzialmente da delle tappe, ovvero segue determinate regole necessarie per arrivare, per gradi, a costituire un po’ alla volta questo famoso sentire.
La prima tappa è quella della conoscenza, ovvero l’individuo – facendo esperienze nel mondo fisico – arriva a conoscere attraverso i sensi, attraverso le emozioni, attraverso i pensieri quelli che sono gli stimoli che gli vengono sottoposti dall’esistenza.
Intendiamoci però: questa è veramente e puramente una conoscenza dello stimolo, conoscenza come presenza, come realtà dello stimolo, senza comprendere quelle che sono le cause, gli effetti e senza andare un pochino oltre alla semplice conoscenza.
La seconda tappa di questo processo è quella che noi denominiamo consapevolezza, ovvero il rendersi conto che questi stimoli non soltanto esistono, ma influiscono sull’individuo in questione. Ho fatto l’esempio dell’individuo che si rende conto che prima esiste il sentimento dell’invidia e che diventa consapevole, in un secondo momento, che questa invidia costituisce non soltanto un problema per gli altri, ma che magari costituisce un problema anche per se stesso, e questo indipendentemente dal fatto che egli accetti la constatazione che l’invidia appartenga anche a lui.
Con il passare del tempo, delle incarnazioni, degli stimoli che l’esistenza procura, l’individuo – sempre fermandoci all’esempio dell’invidia – accetterà un po’ alla volta che anch’egli è un essere invidioso; accettandolo riuscirà a guardare questa sua invidia con maggiore serenità, riuscirà ad osservare se stesso nei momenti in cui questa invidia si estrinseca e, quindi, da questa sua osservazione più o meno conscia, arriverà a comprendere i perchè della propria invidia.
Ecco così la comprensione dei propri fattori interiori quale terza tappa per raggiungere il sentire.
Allorchè questa tappa è raggiunta e si consegue la comprensione di un fattore qualunque, pressochè automaticamente questa comprensione si trascrive in quello che è il corpo akasico, il corpo della coscienza, formando un piccolo nucleo di sentire che si unirà agli altri eventuali nuclei già presenti in questo corpo akasico.
Ovvero, per rendere un’immagine a cui voi siete abituati, il corpo akasico dell’individuo struttererà un’altra parte della sua materia in modo organico; parte di materia che formerà un disegno già più complesso, più strutturato, se altri nuclei di sentire saranno stati raggiunti dalla compresnsione di altri fattori, di altri elementi.
Nel corso dell’evoluzione, questo processo viene compiuto più volte, non è che si compia un’intero ciclo evolutivo per comprendere un fattore. Ovvero, in continuazione l’individuo, incarnandosi, andando avanti nel suo cammino incarnativo, conosce, diventa consapevole, raggiunge il sentire, magari anche contemporaneamente, ovvero: contemporaneamente può conoscere un fattore, può essere consapevole di un altro fattore, può comprendere un altro fattore ancora, e quindi trascrivere questo fattore (nel corpo akasico).