L’espressione iniziale di questo brano del testo è tratta da una raccolta di dialoghi fra maestro e discepolo in forma di koan, dal titolo Den to roku (La raccolta della trasmissione della lampada).
Il sesto patriarca cinese, Hui neng, illustra a un suo discepolo il significato di due parole così come sono intese nel Sutra del Nirvana. Le due parole chiave sono quelle che noi abbiamo tradotto con senza schema e con schema, per rendere il giapponese e cinese mujo e jo. Va detto che la parola mujo, di uso corrente in giapponese e di fondamentale importanza per la comprensione della visione buddista, ha una gamma di sfumature che ci risulta impossibile rendere in italiano con una sola parola. Solitamente essa viene tradotta con impermanenza o transitorietà o insostanzialità, ma questi termini, ormai stereotipati, non ci sembrano affatto esaustivi del significato complessivo di mujo. Mu è negazione, assenza, mentre jo significa costante, perenne, ripetivivo, ordinario, normale, regolare, comune, sempre uguale ecc. Mujo è quindi assenza di durata perenne, mancanza di reiterazione, negazione della fissità di ogni genere. Senza schema vuole rendere l’idea di assenza di predeterminazione e di prevedibilità e l’impossibilità di una definizione che sia esauriente della realtà intera in tutte le sue sfumature.
[→uma] Sia l’uso dell’espressione “non schema” di Forzani-Mazzocchi, che quella di “impermanenza” di Carl Bielefeldt citate fino a ora, non permettono al sentire in gioco di “respirare”, sono entrambe espressioni che delineano ambiti ristretti.
Tollini traduce: L’impermanenza è proprio la natura-di-buddha, la permanenza è proprio la mente che distingue tutti i fenomeni in bene e male.” L’impermanenza di cui parla il Sesto patriarca non è la stessa che viene
considerata nei due veicoli eretici. […] L’impermanenza da se stessa si spiega, si realizza, si testimonia, perché tutto è impermanenza.
[Nell’edizione dello Shōbōgenzō curata da Kazuaki Tanahashi, traducono] “In seguito, Huineng insegnò al suo discepolo Xinchang dicendo: “L’impermanenza è essa stessa la natura di Buddha. La permanenza è la mente che discrimina il bene e il male di tutte le cose.” L’impermanenza di cui parla Huineng va oltre la comprensione degli estranei o dei praticanti dei Veicoli Minori. Gli insegnanti e i discendenti di queste persone parlano di impermanenza, ma non l’hanno ancora compresa appieno”.
[Nishijima-Cross traducono] Il sesto patriarca predica al discepolo Gyosho: “Quello che è senza costanza è la natura di Buddha. Ciò che ha costanza è la mente che divide tutti i dharma in buoni e cattivi.” “Quello che è senza costanza” espresso dal sesto patriarca va oltre le supposizioni dei non buddisti, dei due veicoli e simili.
Norman Waddell and Masao Abe traducono anche loro con “impermanenza”.
Perché questo lungo confronto tra traduzioni? Perché la frase che apre il capitolo 8 non è di quelle che si possono sottovalutare:
«La realtà è non schema, ecco la natura autentica; la realtà è schema, ecco il cuore che discerne il bene e il male di ognuna di tutte le cose». [F-M]
“L’impermanenza è, naturalmente, la Natura di Buddha, e la permanenza è, in realtà, la mente che divide tutte le cose in buone o cattive”. [CB]
La mia opinione – per il niente che conta e non per cavillare – è che dopo la tutta l’insistenza su “natura autentica niente“, la questione della realtà della natura autentica non può essere ridotta entro l’alveo molto limitato di espressioni quali “senza schema” o “impermanenza” o “costanza”: c’è qualcosa che sfugge.
Perché di natura autentica stiamo parlando, quella stiamo qualificando non altro, ed è un po’ poco affermare che non è duale (sud-nord, alto-basso ecc.), che c’è sempre ma si disvela in un processo.
– Senza schema, fa riferimento allo schema/struttura/processo della realtà duale e vuol dire, baluginare, di una dimensione d’esperienza che è oltre lo schema;
– impermanenza è l’opposto di permanenza, e fa ancora riferimento alla realtà duale e al fatto che essa non ha la concretezza e durevolezza che gli attribuiamo;
– senza costanza fa anch’essa riferimento a una qualità della illusorietà del duale.
Riusciamo a parlare di una dimensione Altra solo riferendoci alla realtà che conosciamo e solo per negazione/sottrazione. Perché?
– Perché non abbiamo reale esperienza e comprensione della natura autentica?
– Perché non riusciamo a decodificare ciò che sentiamo e a tradurlo in simboli?
– Perché non possediamo i linguaggi – i simboli – per esprimere l’esperienza in modo efficace?
Tutte e tre, suppongo.
Però – permettetemi la polemica – siamo pronti a sbuffare se qualcuno fa riferimento a paradigmi non essoterici, e non pronuncio il termine esoterico perché c’è sempre qualcuno a cui si drizza il pelo: sbuffiamo di fronte ai tentativi, magari balbettati, di dire quello che a noi basta definire l’indicibile. Ah, questo è indicibile! e abbiamo risolto.
Un contemplativo è tale se non si ferma davanti all’indicibile, se lo indaga. Se lo indaga deve possedere strumenti cognitivi adeguati nel suo corpo mentale, un dizionario simbolico adeguato, una capacità di decodifica di ciò che sente.
1- Cosa sente?
2- Quel che sente che forma/vibrazione concettuale/affettiva/sensoriale assume?
3- Quel concetto/affetto/sensazione che espressione o gesto o testimonianza diviene?
Certo, ci sono contemplativi “naturali” quelli che, ad esempio, vanno a Međugorje o che hanno una sintonia particolare con la natura, ma io intendo un’altra razza di contemplativi, quelli che affrontano l’abisso del “vuoto“, dell’indicibile con il dubbio come maestro e l’abbandono di sé, dell’adesione a sé, come guida nella notte.
Leggo quanto afferma Dōgen e prendo atto che nella sostanza gira attorno a pochi concetti base: ho letto Busshō per la prima volta più di trentanni fa e ancora mi conduce al centro dell’Essenza ma mi lascia sulla porta: inevitabile, oltre la porta ci debbo andare da me e in tutto questo tempo ci sono andato, ci vado ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni battito di ciglia.
Posso dire qualcosa che non sia sottrazione, negazione del reale duale per descrivere la natura autentica, l’Altra natura, la Reale natura? Posso farlo, nei limiti perché non espongo al pubblico le mie interiora.
Per farlo debbo tirare in campo il Ciò-che-È, l’unica espressione che abbia un senso quando si tratta di natura autentica.
→ Da quali simboli, secondo la mia esperienza contemplativa, la comprensione del Reale a me accessibile è rappresentata la natura autentica? Simboli che non sono concetti – altrimenti quel termine avrei usato – ma vibrazioni di sentire, sostanza di sentire? Simboli che solo in seconda istanza, non lo si dimentichi, divengono concetto e poi pensiero.
Quali sono i simboli che vengono sentiti in ogni corpo transitorio come inequivocabili, come sostanza reale di sentire non frutto di suggestioni e di narrazioni quando si contempla il Ciò-che-È e lo si sente come natura autentica di quel momento senza tempo? Quando si contempla l’attimo eterno e lo si riconosce come Ciò-che-È-natura autentica?
(Ricordo al lettore/rice che un simbolo è sempre un aggregato vibrazionale che contiene in sé numerose frequenze vibratorie: è quindi un insieme dinamico, una sintesi unitaria di più sfumature di sentire che trova posto nel corpo della coscienza/akasico in una sorta di dizionario simbolico personale)
Il Ciò-che-È/natura autentica è sentito come:
– Vastità: spazio senza limite e condizionamento;
– Essenza: uno stato che è esistente ed essente;
– Presenza: totalmente presente come sentire, pensare, provare, agire nell’attimo eterno;
– Potenza: sentire che È e che genera;
– Senso: che supera la dicotomia senso/non senso testimoniando che ogni cosa che accade è quella cosa e altro non può essere;
– Profondità: abisso di profondità mai conoscibile, un gorgo in cui il contemplante sta nell’eternità dell’attimo;
– Gratuità: senza scopo nell’attimo eterno in cui È; non proviene da, non volge verso, non ha un fine né una funzione, non è per sé né per qualcuno. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Fonte: Aldo Tollini
Fonte: Kazuaki Tanahashi
Fonte: Gudo Nishijima, Chodo Cross
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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