“Comunque tu ti perda, questa avviene sempre in me.
Insieme a te cammino, rido, soffro, attendo.
Ogni volta che cadi, con te cado.
Ogni volta che ti perdi, con te mi perdo.
Sono il perdersi e il ritrovarsi,
sono te che incontri,
sono l’incontro e sono il non trovarsi.
dolore
Ancora sull’origine del dolore
Manish, nel suo post di ieri, sostanzialmente afferma che il dolore si può gestire attraverso la disconnessione, appoggiando l’attenzione e la consapevolezza sul presente. Si, senza dubbio, ma questa è la gestione del dolore, non la via al superamento del dolore.
Anna dice: “C’è chi, come il Cerchio Firenze 77, afferma che il dolore ce lo siamo cercati: quale è la tua posizione in merito?”
La gestione del dolore
Elena L. scrive: “Stare nel dolore aiuta a elaborarlo, ad andare verso l’essere liberi o stare nel dolore è tempo malato in pasto al nostro ego, ti aggancia e ti tira semplicemente giù per rafforzare un personaggino sofferente?”
C’è una fase in cui non scegliamo di stare nel dolore o non starci, semplicemente il dolore c’è.
Nessuna vita è incompleta
Da un amico ricevo: “E quando ti rendi conto che la tua vita è permeata di una parsimonia esistenziale? Se per via di una incertezza sclerotizzata non riesci ad essere chi potresti/dovresti essere? C’è errore nel non realizzare il proprio dharma? O la mente costruisce quest’esistenza per far questa esperienza di potenzialità arrugginita e reagire nelle prossime vite?
Possiamo stabilire, innanzitutto, due principi:
-nessuna vita è immobile o incompleta, ma porta comunque a compimento quello che è lo scopo dell’incarnazione;
-vivere è manifestare un sentire di coscienza ed acquisirne nuovi gradi.
La debolezza è la mia forza
Non ciò che conosco ma ciò che mi rimane difficile, ciò su cui cado, ciò che non so discernere.
Dalla mia ignoranza sorge la direzione della mia vita. L’ignoranza mi conduce a cercare, a indagare senza fine; mi impedisce di fermarmi e mi accompagna di errore in errore, di limite in limite, di parzialità in parzialità, di stoltezza in stoltezza, di fatica in fatica.
L’importanza di non sottrarsi al dolore
Luca: ma il dolore è necessariamente male da cui rifuggire? C’è un vero distinguo tra bene e male? Brutto e bello? Santo e maledetto? L’esistenza non si esprime in tutti i suoi aspetti di vita e di morte?
Temi complessi. Premessa:
il dolore deriva dal conflitto e dall’attrito tra identità e coscienza. Viene generato, di solito, dall’incontro con l’altro da sé; il conflitto conduce incontro a sé, alle proprie dinamiche e a quelle dell’altro.
Le scelte che fanno soffrire chi ci sta a fianco
Quando siamo consapevoli che una nostra scelta produce sofferenza in chi ci sta a fianco, dobbiamo perseverare o rinunciare. Abbiamo una possibilità di scelta? E’ giusto sacrificarsi? La nota su Facebook.
Perché soffriamo
Una discussione sull’origine del dolore sulla pagina facebook:
Filosofia del vivere
Aspetti della visione della filosofia antica e alcune nostre considerazioni.
La liberazione dal dolore
“Il primo insegnamento che dal dolore deve venire è quello di riconoscere una cristalizzazione del vostro modo di pensare, di essere – di vivere, in sostanza.
Conoscenza di sé, consapevolezza, comprensione
Non di rado tutto inizia con il dolore: il disagio interiore che proviamo e che può avere cause psicologiche o esistenziali diventa talmente pressante da invadere il nostro quotidiano: quando non ci permette più una vita cosiddetta normale, in noi nasce la spinta al superamento di quello stato e quindi al cambiamento.
Naturalmente le strade per giungere a questo punto sono tante e non necessariamente condizionate dal dolore.
Sempre, quando avvertiamo la necessità di cambiamento questa è determinata da una situazione pregressa ormai alla fine e da una nuova verso cui ci sentiamo sospinti e che non sappiamo cos’è.
La base di ogni cambiamento è la conoscenza di sé, lo sviluppo di alfabeti che ci permettono di decodificare il nostro pensiero, la nostra emozione e le nostre azioni.
La necessità, la spinta al cambiamento si impatta con gli strumenti della conoscenza di noi che ci appartengono: maggiore è la dotazione strumentale, più rapido e più vasto sarà il processo di trasformazione.
Più inconsapevole di sé è la persona e più tempo e fatica saranno necessari: normalmente è così ma non è un assoluto e questo principio può essere ampiamente smentito da percorsi originali.
Come avviene la conoscenza di sé?
Attraverso l’osservazione della propria manifestazione e dei segnali di ritorno che l’altro da noi ci manda: vedo che cosa esprimo, sento, penso e osservo che cosa giunge come reazione dall’altro a ciò che ho espresso.
Dentro la relazione mi conosco, fuori della relazione è molto probabile che io ripeta i miei meccanismi senza fermarmi. La relazione è la mia insegnante, l’altro il mio maestro: se sono disposto ad imparare e non punto il dito sull’altro dicendo:”E’ sempre colpa tua!”, allora posso cogliere l’importanza di quell’essere che la vita mi ha messo a fianco come amico, compagno, collega; posso vedere che lui è lo specchio in cui vengo riflesso e quindi non mi arrabbio con lo specchio ma prendo atto che parla di me, per quanto sgradevole sia quel parlare.
Quindi la conoscenza di sé appoggia essenzialmente sull’osservare e sull’osservarsi, ma perché questa osservazione possa essere è necessario che ci sia consapevolezza, cioè che la mia attenzione non sia vaga ma focalizzata sulle scene che mi accadono.