Fonti: Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Shōbōgenzō di K.Nishiyama, traduzione S.Oriani
Shōbōgenzō, tradotto da Gudo Nishijima e Chodo Cross
“La nostra mente è Buddha”* non può essere separato dalla risoluzione di raggiungere la suprema illuminazione o dalla prassi religiosa, né dal risveglio o dal nirvāna. Se non abbiamo sperimentato ciò, non potremo mai comprendere il significato di “La nostra mente è Buddha.” Ma se vi è una vera esperienza di queste cose anche per un solo istante, possiamo comprenderne il reale significato.
*“La nostra mente è Buddha”: la consapevolezza del sentire unitario, quando è coltivata e sperimentata, quando è frutto di comprensioni su comprensioni che si vanno sedimentando e conferiscono struttura al sentire che generano, divine quello stato permanente che chiamiamo “illuminazione”, realizzazione, condizione d’Essere e d’Esistere unitaria.
La consapevolezza del sentire unitario in genere si manifesta come esperienza di flash – di momenti di lucida consapevolezza unitaria – per un lungo tratto di strada, per poi divenire una piattaforma stabile, una consapevolezza costante.
Questa consapevolezza costante è più simile a una sinusoide che a una linea retta, intendo dire che viene percepita con gradi di differente intensità pur essendo sempre presente: il comune movimento dei pensieri, delle emozioni e sensazioni può andare a “velare” in vario grado quella consapevolezza unitaria e questo genera l’altalenarsi della percezione unitaria.
Se qualcuno afferma che “La nostra mente è Buddha” si può comprendere solo dopo anni di studio, costui non ha una chiara comprensione. Egli non ha mai avuto una corretta opinione sulla Legge, né ha mai incontrato un vero maestro. Buddha significa Śākyamuni Buddha e rappresenta tutti i Buddha passati, presenti e futuri. Il Buddha Śākyamuni è “La nostra mente è Buddha.”
Questo fu trasmesso ai monaci nel Kannondōriin del Koshōhōrinji, il 25 maggio 1239.
Trascritto da Ejō, il 12 luglio 1246, nell’alloggio del discepolo principale dell’Ei-heiji. Ricopiato nel 1278, durante l’addestramento estivo.
[Tollini traduce] Poiché le cose stanno così, il sokushin zebutsu è semplicemente il sokushin zebutsu senza macchie. Tutti i Buddha non sono altro che tutti i Buddha, senza macchie. Perciò, il sokushin zebutsu è risvegliare il bodhaishin (il desiderio di illuminazione, ndr), applicarsi alla pratica, ottenere il risveglio ed entrare nel nirvana di tutti i Buddha. Invece, non risvegliare il bodhaishin, non applicarsi alla pratica e non entrare nel nirvana, non è sokushin zebutsu.
Se però per un attimo si risveglia il bodhaishin e si pratica/ci si illumina, 575 quello è sokushin zebutsu. Se anche solo un granellino ha il risveglio della bodhaishin e ha la pratica/illuminazione, quello è sokushin zebutsu. Se per un periodo di tempo incommensurabilmente lungo si risveglia la bodhaishin e si pratica/ci si illumina, quello è sokushin zebutsu. Se anche in un solo pensiero si risveglia la bodhaishin e si pratica/ci si illumina, quello è sokushin zebutsu. Se anche solo in metà pugno si risveglia la bodhaishin e si pratica/ci si illumina, quello è sokushin zebutsu.
Quindi, il fatto che non si realizzi il sokushin zebutsu pur praticando per lungo tempo e diventare poi un Buddha, è dovuto solo al fatto che ancora non si vede il sokushin zebutsu, non lo si conosce e non lo si pratica. Oppure, vuol dire che ancora non si è incontrato un buon maestro che insegna il sokushin zebutsu. Tutti i Buddha sono il Buddha Sakyamuni. Il Buddha Sakyamuni è il sokushin zebutsu. Quando si diventa un Buddha insieme a tutti i Buddha del passato del presente del futuro, di sicuro si diventa Sakyamuni Buddha. Questo è il sokushin zebutsu.
→ Torna una questione di non poco conto, la concezione di Dogen che lega la pratica all’illuminazione/realizzazione, come in una sorta di catena: abbiamo già detto che, nel Sentiero, siamo giunti ad altre conclusioni. La consapevolezza unitaria di Essere e d’Esistere, consapevolezza stabile e non occasionale, quella che è chiamata illuminazione, è, secondo la nostra comprensione, la risultante della strutturazione del sentire, strutturazione che deriva dalle comprensioni che sorgono dalle esperienze.
Sono le esperienze che strutturano il sentire e dunque lo zazen partecipa a questa strutturazione in quanto esperienza tra esperienze.
→ Zazen non è l’esperienza cardine – perché molte e di diversa natura sono le esperienze cardine – ma è quella disposizione all’ascolto, all’osservazione, al lasciar andare, all’arrendersi, al disidentificarsi che illumina ogni esperienza di una luce nuova: potremmo dire che zazen è la cifra che qualifica in modo del tutto nuovo la consapevolezza con cui si vivono le esperienze.
Il praticante di zazen realizza quella consapevolezza che permette la contemplazione dei vissuti, di qualunque natura e intensità siano; quella consapevolezza agevola un flusso dei dati coscienza-esperienza-coscienza non contrastato, ed è questo fluire di dati con ridotti condizionamenti – in virtù della disidentificazione – che chiarifica l’intero sistema del praticante e può permettere di affermare che pratica e illuminazione/realizzazione coincidono.
In altre parole: nel momento della pratica – in virtù della disidentificazione – il fuoco della consapevolezza non è sul divenire e questo permette il sorgere dell’intera estensione dell’esperienza di Essere, esperienza tanto più consapevole quanto più il sentire è strutturato. Esperienza comunque presente nel neofita quanto nell’anziano della pratica, nel praticante di limitata evoluzione come nel realizzato.
Ma così è anche quando non si pratica e a prescindere dalla pratica: la pratica di zazen rende il processo più consapevole ma nell’inconsapevolezza possono comunque esistere l’esperienza unitaria e la realizzazione piena.
La pratica non garantisce niente e di niente è condizione: il vivere e lo sperimentare sono l’unica condizione irrinunciabile.
Noi pratichiamo non perché ci conferisce qualcosa, ma praticando disponiamo l’insieme dell’essere a Esistere e a Essere: praticando Esistere ed Essere sono.
Il nostro orizzonte non è stare davanti a un muro, ma vivere la ferialità quotidiana con la stessa disposizione di quando siamo davanti al muro.
575 Dôgen crea una parola nuova (unendo due ideogrammi) che comprende il doppio significato di pratica e di illuminazione per indicare in modo concreto che pratica e illuminazione sono aspetti complementari della stessa realtà.
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