Dōgen, Busshō: commento (2) di Jiso Forzani a Busshō 8 [busshō8.2]

Ciò premesso, va subito detto che non c’è schema peggiore che quello di ripetere continuamente che la realtà è senza schema; non c’è dogma più rigido del dogma di essere senza dogmi.

L’espressione che il sesto patriarca usa non vuole essere la soluzione del problema, la formula che sistema una volta per tutte i conti con la realtà: fosse pure, quella formula, stabilire che non c’è formula! In questo il buddismo, se ben compreso, è straordinario, perché non ci consente mai di fare da spettatori non coinvolti, ma ci ributta sempre nella corrente, non per sadismo dialettico, ma perché nella corrente ci siamo sempre per davvero.

Quella visione fuorviata, fuori dalla via, che Doghen stigmatizza, asserisce essa stessa che la realtà è senza schema, ma lo fa in modo dottrinale, come chi invece è estraneo a questa inconsistenza e la guarda da un punto di appoggio solido e immutabile, al riparo dall’illusione e dalla polvere del mondo. Chi così concepisce l’assenza di schema, non l’ha sondata fino in fondo per il semplice fatto che coltiva l’illusione che, sotto sotto, quell’assenza non lo riguarda e non lo coinvolge, rimettendolo continuamente in discussione, spoglio appunto di ogni schema a fargli da scudo.

Invece «questo non schema, da se stesso, con la parola, con l’azione, con la testimonianza manifesta il suo non essere schema: tutto questo e non altro corrisponde a non schema». Detto in altre parole, non c’è un luogo da cui guardare dentro la vita che non sia a sua volta vita: e non c’è luogo da cui guardare dentro la morte che non sia a sua volta morte. Guardare dentro la vita è possibile solo da dentro la vita: nella vitalità della vita che manifesta la vita: questo e non altro è vita.

Nel giardino dell’Eden ci sono due alberi, fra tanti, dai frutti che attirano: uno è l’albero della conoscenza del bene e del male (schema), l’altro è l’albero della vita (non schema). Il nostro problema è che mangiamo soltanto il frutto del primo albero, e restiamo soffocati dal problema della conoscenza: la conoscenza ha il sopravvento sulla vita e rischia di separarci da essa. È necessario che andiamo fino in fondo, ormai, e che mangiamo anche del frutto dell’albero della vita. Per accorgerci che quel frutto non è un frutto che si mangia, che io posso mangiare, ma è il frutto chi mi mangia, da cui sono mangiato, inghiottito, rigenerato: il frutto dell’albero della vita, che è la mia, vissuta sul piano individuale come parabola di uno schema posto fra le coordinate di nascita e morte, e che è la vita universale, avventura, incarnata nel tempo, dell’eterno. 

Non si deve ridurre la vita a una diatriba fra sacro e profano, fra giusto e ingiusto, fra buono e cattivo: il che non vuol dire assolutamente che non esistano il bene e il male, e che non vadano riconosciuti, facendo il bene e non facendo il male. Vuol dire che noi non li possiamo separare artificialmente, secondo i criteri del nostro gusto, al solo fine di metterci l’animo in pace.

Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? Dove sono fissate le sue basi, o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio? Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora, perché essa afferri i lembi della terra e ne scuota i malvagi?  (Giobbe 38,4)

Non si può restare indifferenti di fronte allo mistero insondabile della realtà: non c’è dottrina che offra riparo, non c’è religione che salva per miracolo, non c’è sistema che permetta di sfuggire. Chi non si meraviglia, non dubita e non teme, perché si nasconde dentro il suo sistema religioso o filosofico, e lì si ritiene al sicuro, è una specie di demonio, che sostituisce con un’ideologia il rapporto diretto col mistero della vita. È un demonio, anche se professa una santa dottrina, perché violenta la verità per farla rientrare nella dottrina: prima o poi violenterà anche le persone che non si riconoscono nella sua visione delle cose. Un altro testo della radicalità estrema, il Qoelet biblico, dopo aver raschiato la realtà fino all’osso e anche oltre, indica nel timore di Dio l’unico atteggiamento sensato. Questo sentimento di stupito timore non è il segno della resa passiva, ma la misura del limite umano: senza accettare il quale fino in fondo, non è possibile operare scelte di vera libertà.   

Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.

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