Il nome quattordicesimo Patriarca in sanscrito è Nâgârjuna e in giapponese è Ryuju Sonja, che significa il venerato Drago Albero. In Cina, oltreché Ryuju (Drago Albero), è chiamato anche Ryu Sho (Drago Vittorioso), oppure Ryu Myo (Drago Feroce)[1].
[1] Questa precisazione aveva probabilmente il senso di evitare l’errore di pensare che i tre nomi, che dovevano essere comunemente noti, si riferissero a tre persone diverse. Oggi per noi la precisazione è superflua, ed è invece bene rimarcare che in oriente il simbolo del Drago è sempre associato a un’immagine positiva, di forza e di potenza benefica, anche nel caso in cui è terribile e riveste la funzione di guardiano. Il drago o dragone, nella simbologia orientale, assomiglia a ciò che rappresenta un arcangelo con la spada nella simbologia occidentale, nella quale il drago è associato invece a un’idea di negatività (vedi Apocalisse). Nel testo, la lettura degli ideogrammi dei nomi cinesi di Nâgârjuna segue il metodo on giapponese [/1]
Nato nella regione occidentale dell’India, si trasferisce nella regione meridionale. Molte persone di questa regione credevano nella felicità mondana. Il venerato perciò espone la meravigliosa legge. Coloro che ascoltano si dicono l’un l’altro così: Per l’uomo avere la felicità mondana è la prima cosa al mondo. Invece, chi, per quanto parli della natura autentica con ardore, ha mai potuto anche solo adocchiarla?
Il venerato dice: «Chi desidera vedere la natura autentica, anzitutto deve togliere di mezzo lo spadroneggiare dell’io».
Quelli dicono: «La natura autentica è grande, è piccola?».
Il venerato dice: «La natura autentica non è né grande né piccolo, né vasto né angusto, non è né fortuna né ricompensa, la natura autentica non muore, non nasce».
[A⮃] Quelli, udendo parole che vincono i loro ragionamenti, uno a uno cominciano a convertire il cuore.
Il venerato poi, sedutosi, manifesta l’autenticità del suo corpo, simile alla sfera della luna piena. Tutti i convenuti odono solo la voce che proclama la legge, ma non vedono la sembianza del maestro.
[B⮃] Fra i convenuti c’è il nobile Kanadaiba, che dice loro: «Percepite o no il suo aspetto?».
[Tollini traduce]
[A⮃] Il venerabile Nâgârjuna stando seduto [in meditazione] mostrò il suo corpo della libertà che era un cerchio come la luna piena.230 Tutta l’assemblea udì solo il suono del Dharma e non videro la forma del maestro.
[B⮃] In quell’assemblea vi era una persona chiamata venerabile Kânadeva231 che disse all’assemblea: “Percepite questa forma 232 oppure no?“.
230 La forma della luna piena rotonda è l’immagine della perfezione.
231 Discepolo di Nâgârjuna, visse nell’India meridionale. Considerato il quindicesimo patriarca dello zen.
232 Cioè: quella della luna piena assunta da Nâgârjuna. [/Tollini]
[Carl Bielefeldt traduce]
[A⮃] Il Venerabile, mentre era ancora nella sede del Dharma, si rivelò così libero da ogni forma di mondanità da sembrare il globo della Luna piena. Ma tutti i presenti si limitarono ad ascoltare i suoni dell’Insegnamento e non osservarono l’aspetto del Maestro.
[B⮃] Tuttavia, uno di loro, Kānadaiba, figlio di un anziano della città, disse ai presenti: “Non vedete il suo aspetto?”. [/CB]
[→uma]
[A⮃] Qui siamo di fronte a un’esperienza che nel Sentiero conosciamo bene, molte volte ripetuta nelle nostre sesshin e negli incontri mensili di Via del monaco. Cosa sta accadendo nell’assemblea dei monaci presieduta da Nâgârjuna?
Una risonanza sul piano del sentire frutto della creazione di un’atmosfera vibratoria tra tutti i presenti attivata da chi presiede in virtù della sua disposizione nell’Essere.
Chi presiede, Nâgârjuna, è la “campana che suona” e avvia la creazione dell’atmosfera vibratoria.
Nâgârjuna parla: “Tutti i convenuti odono solo la voce che proclama la legge, ma non vedono la sembianza del maestro”.
La voce di Nâgârjuna è il “flauto magico e i topolini vengono catturati da quel suono e lo seguono”: la voce di Nâgârjuna è sentire di una data vibrazione e ampiezza, chi ascolta, immerso nell’ascolto, precipita nel sentire e tutto ciò che può colpire i sensi dei corpi transitori non ha più valore: “ma non vedono la sembianza del maestro“.
Il maestro è sentire, i discepoli sono sentire, quella è la cifra che domina, tutta interiore e spirituale: il “mondo”, i caratteri della sua impermanenza e transitorietà, scompaiono.
Nâgârjuna/Essere ha avviato il processo ma ora tutti i monaci/Essere risuonano sulla stessa frequenza creando una atmosfera vibratoria comune che si espande in proporzione all’ampiezza del sentire e alla forza dell’organismo emittente.
[B⮃] Kanadaiba, che dice loro: «Percepite o no il suo aspetto?»; “Percepite questa forma oppure no?“; “Non vedete il suo aspetto?”.
Che percezione, sui diversi piani, avete di quanto sta accadendo? Perché chiede questo? Perché è evidente che sta accadendo qualcosa che travalica totalmente le comuni percezioni: sono precipitati nell’ambito vibrazionale dominato dal sentire e Kanadaiba – che evidentemente conosce bene l’esperienza – vuole essere certo che i monaci comprendano e sentano l’accadere senza pari che si sta verificando.
Non so se l’uso da parte dei traduttori dei termini aspetto e forma sia coerente con l’originale giapponese, probabilmente anche il termine sostanza sarebbe stato appropriato: “Percepite la sostanza di quanto sta accadendo?”.
È comunque certo che, proprio perché i sensi dei corpi transitori sono a margine, anche la percezione fisica risulta alterata e la figura percepita risulta spiritualizzata, spesso essenziale ed eterea, come priva di materialità.
Accadere senza pari: questo è ogni situazione in cui un gruppo di individui – attivati o no da una guida – sperimenta l’Essere/sentire del momento eterno (Ciò-che-È/natura autentica). Ogni prevalenza dei mondi relativi viene meno, i sensi dei corpi transitori sono al margine, il sentire domina su tutti gli altri veicoli e irradia la sua vibrazione rafforzandosi con le vibrazioni altrui.
L’insieme degli individui crea un ambiente vibratorio omogeneo e stabile la cui forza è permeante e inconfondibile, caratterizzata dalle sette qualità indicate in questo post e riassunte nell’immagine che segue. [/uma]

Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Fonte: Aldo Tollini
Fonte: Carl Bielefeldt
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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