Mancuso e Veronesi su Dio e il male: i limiti di un’analisi

Le fonti: l’ultimo libro di Umberto Veronesi “Il mestiere di uomo, Einaudi”; Vito Mancuso, Repubblica 18.11.2014.
Dice Veronesi: “Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”.
Afferma chiudendo il suo articolo Mancuso: “La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio.”
Dal ragionare di Veronesi è evidente che la sua esperienza della fede è stata vissuta attraverso la ragione: adesione dunque ad un sistema di valori che è crollata non appena ha aperto gli occhi sulla natura complessa della realtà e si è impattata con la dimensione della distruttività, della malattia, del male inteso secondo il pensiero comune.
Veronesi vede i bambini invasi da cellule cancerogene e afferma: “Dov’è Dio?”. Non trovando una risposta nella mente propria e in quella degli altri, arriva alla conclusione che Dio non c’è perché se ci fosse non potrebbe ammettere un simile assurdo.
Nella sua vita di chirurgo e ricercatore oncologico ha sempre cercato l’origine del cancro nella dimensione biologica dell’individuo e in quella direzione ha speso le sue energie e la sua dedizione: non so se Veronesi ha mai posto in dubbio che il cancro non è solo fenomeno distruttivo che assale il corpo fisico umano, ma è processo che ha anche altra natura ed altra genesi; non lo so, non conosco il suo pensiero , prendo atto di ciò che afferma.
Prendo atto anche che sia Veronesi che Mancuso considerano il male una sciagura: Mancuso afferma che la sua origine va ricercata nelle forze del caos cosmico.
Entrambi sembrano essere convinti che se ci fosse giustizia, non ci sarebbe male.
Credo che possano affermare tutto quello che affermano con così tanta decisione, perché forse mai hanno provato a guardare al cammino umano da un’altro punto vista che superi le categorie filosofiche a cui entrambi aderiscono.
Il limite che trovo nelle loro analisi, nel loro indagare la realtà, è determinato dalla loro indiscussa adesione al modello duale: esiste il bene ed esiste il male; esiste la giustizia ed esiste l’ingiustizia.
Dentro questa morsa cercano le risposte, ma temo che faranno fatica a trovarle.
Non ho la pretesa di insegnare loro alcunché e quindi continuerò esponendo semplicemente il mio punto di vista conoscendone la provvisorietà e la relatività.
Ho avuto, nel corso della mia attività, la possibilità di accompagnare malati di tumore e genitori che avevano perso figli giovani.
Ho visto il dolore, il cammino attraverso esso. Ho visto la protesta, la rabbia nei confronti della vita e di Dio. Ho visto la difficoltà, la resistenza ad adottare un nuovo punto di vista sul vissuto. Infine ho visto il risorgere, o forse il sorgere per la prima volta, della fiducia, dell’esperienza dell’abbandono, l’affiorare di una trasformazione profonda e radicale nel pensare, nel sentire, nel vivere.
Ho visto radicali “conversioni” fiorire da quello che altri chiamano male e sono giunto alla conclusione che il cosiddetto male è un processo esistenziale che rivolta le vite di coloro che con esso si impattano.
Quell’essere rivoltati a volte conduce nel tunnel della rabbia, della frustrazione e del non senso e lì si ferma; altre volte passa attraverso quelle fasi e germoglia in una nuova vita, in uno sguardo esistenziale radicalmente altro. Da cosa dipende questa diversa conclusione del processo della malattia o del lutto? Dagli strumenti di analisi, di lettura, di interpretazione e dalle comprensioni acquisite dalla persona nel corso dell’attraversamento del processo.
Possiamo dire che la malattia è fenomeno biologico; possiamo affermare che Auschwitz è il frutto della distruttività umana e dell’assenza di Dio, ma così facendo non abbiamo spiegato niente, abbiamo solo osservato le manifestazioni e vi abbiamo posto sopra un’etichetta.
Cerchiamo l’origine del cancro nella sfera del biologico quando dovremmo cercarla in quella dei processi esistenziali; non solo nei conflitti relativi alla sfera psichica, ma in quella dei veri e propri processi di fondo dell’esistenza personale.
Cerchiamo una ragione ad Auschwitz nel pensiero, nell’emozione, nella intenzione umana, nella sua natura che a noi appare irrimediabilmente corrotta e non comprendiamo che quella malvagità origina dall’ignoranza di sé e della vita, dalla non comprensione, da una “cecità esistenziale” che è passaggio comune, ma non definitivo, di ogni essere umano.
Parliamo della vita e della morte con la stessa perizia con cui un cieco che tocca la gamba di un elefante parla di esso.
Concludendo, penso che non troveremo nessuna risposta fino a quando la nostra analisi della vita non imparerà ad includere la dimensione esistenziale, identificando in essa la sorgente della manifestazione cognitiva, emotiva, fisica.
Il nostro limite di analisi deriva dal paradigma che utilizziamo per interpretare noi, le nostre vite, l’accadere personale e collettivo: corpo-emozione-pensiero-eventuale-anima (che non si sa bene in che modo sia relativa alle altre componenti).
Prima o poi dovremo compiere un balzo e cominciare a considerare che non esiste lettura plausibile dell’esistenza se non si integra la componente coscienza, vale a dire la sorgente dei processi esistenziali, delle dinamiche cognitive, delle emozioni e delle sensazioni, delle azioni.
Siamo come pescatori che stanno sulla riva del lago, vogliono pescare, protestano perché non pescano niente senza interrogarsi sulla natura della loro esca.

Immagine da http://is.gd/7hTpw0


altruismo

L’intenzione, l’azione altruistica e la nostra credibilità

Quando la nostra intenzione è autenticamente altruistica, essa si riveste di pensiero, di emozione e diviene un’azione coerente: allora siamo credibili.
Prima di questo i nostri sono tentativi, degni di ogni rispetto, che andrebbero protetti e avvolti nella discrezione.
Dopo che in noi è sorta l’intenzione altruistica, non abbiamo alcun bisogno di mostrarci, anzi, tendiamo alla discrezione non solo con gli altri, ma anche nel nostro intimo.
I vissuti quotidiani ci offrono possibilità illimitate di confrontarci con la nostra presunzione, la nostra ipocrisia, il nostro egoismo.


 

contemplazione

La mente contrappone lo stare al fare, la contemplazione all’azione

La mente sa ben poco della realtà che sorge oltre i propri recinti, ed opera nella presunzione di conoscere la natura del reale catalogandolo tra le sbarre della propria cella, finendo per costruire tra sé e ciò che è muri di pregiudizio.
La mente non conosce quanto viva e vivida sia la vita del contemplativo, la vita intrisa di contemplazione; lei contrappone il risiedere, lo stare all’agire, al fare.
La mente non sa che nello stare, nel risiedere nel presente che è, non c’è alcuna passività, nessuna negazione del fare e dell’agire; non sa che per poter risiedere, estrema deve essere l’apertura a ciò che giunge dai sensi, dalla mente, dal sentire.
Per poter accogliere il presente, bisogna lasciar andare tutto il passato e tutto il futuro, tutto quello che adesso non è: in una frazione di tempo, in un battito di ciglia è compendiato un lavoro enorme, possibile perché tutte le comprensioni acquisite in innumerevoli esperienze, in un attimo, si rendono disponibili.
La contemplazione, lo stare, il risiedere è la risultante del massimo dell’azione possibile ad un umano, attuata senza sforzo volitivo alcuno.
Perché non c’è sforzo, non c’è agitazione, non c’è tensione?
Perché c’è la comprensione di quella realtà che accade; perché c’è la compassione che l’avvolge e la copre; perché il soggetto che la vive non ha interesse per sé; perchè l’amore, che è la radice del vivere, quando è riconosciuto e liberato come forza, guida la volontà affrancata dal dovere.
Queste parole sono solo un accenno superficiale all’immenso mondo che si apre quando la mente non domina più la scena e ben altro si presenta all’esperienza del vivente, non di colui che vive.

Immagine di Lee Scott


evoluti

I piccoli fatti ci svelano nella nostra presunzione di essere evoluti

Ci piace considerarci evoluti. Siamo persone della via spirituale, sappiamo andare oltre l’egoità: così ce la raccontiamo.
Poi arriva una parola, un gesto, uno sguardo, un piccolo fatto e in noi si leva un’increspatura, il mare calmo della nostra rappresentazione si turba, il fatto ci colpisce, una piccola ferita s’apre.
In un attimo s’evidenzia ciò che non volevamo vedere e veniamo richiamati alla realtà dei fatti: residui più o meno ampi di egoità dichiarano in modo inequivocabile la loro presenza.
Ombre di vittimismo si profilano, accuse all’altro si abbozzano: rosari dell’identità conosciuti.
Presunzione di essere evoluti; presunzione di sapere, di conoscere, di aver compreso: basta un piccolo fatto e il re è nudo.
I piccoli fatti sono sempre generati dall’altro e solo nella relazione si presentano a noi: ecco perchè alla persona della via spirituale non serve ritirarsi dal mondo, non c’è possibilità di fuggire dai piccoli fatti, dalle minute relazioni, dalle stilettate nel ventre dell’egoità.
Non c’è possibilità di fuggire da sé.

Immagine da: http://is.gd/kY7bfn


 

matite

La formazione dei bambini alla consapevolezza, alla collaborazione, al rispetto, al silenzio

Inizia oggi il Laboratorio della creatività consapevole per bambini; inizia anche un cammino lungo di conoscenza, di collaborazione e di relazione tra le educatrici e i genitori dei bambini presenti.
Abbiamo lavorato con dedizione perché si giungesse a questo avvio: per noi è importante che i bambini possano entrare in contatto con un ambiente che funziona secondo logiche molto diverse da quelle che caratterizzano il mondo nel quale cresceranno:
– la conoscenza e la consapevolezza di sé;
– il rispetto dei bisogni dell’altro;
– il rispetto per ogni aspetto dell’ambiente nel quale sono inseriti;
– lo sviluppo della capacità di fare le cose assieme collaborando, condividendo;
– l’acquisizione di una sana relazione con il proprio corpo e le sensazioni che da questo sorgono;
– lo sviluppo di un pensare ordinato e di una sfera emozionale ampia, consapevole, conosciuta;
– l’acquisizione di una capacità di fare, di trasformare l’intuizione in pensiero e questo in azione;
– l’esperienza dell’equilibrio interiore, della discrezione, del silenzio, delle basi dell’atteggiamento meditativo e contemplativo.
Sappiamo che ciò che sperimenteranno qui, nel tempo, si iscriverà in modo indelebile nel loro interiore e, in virtù anche di quanto qui avranno sperimentato, potranno transitare nelle loro vite con maggiore consapevolezza, con un un minore tasso di dolore e, forse, potranno dare il loro contributo affinché il cammino di tutte le persone sia più armonioso, meno conflittuale, più attento alle esigenze comuni e dell’ambiente che le ospita.
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Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore

Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.

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Raimon Panikkar, l’acqua della goccia, la creazione illusoria della realtà

Raimon usa la metafora antica della goccia d’acqua e la illumina con il suo bel sorriso che, da solo, racconta molte cose.
Scrivo questo post per porre domande, più che altro.
Se ciò che è rilevante è l’acqua, ovvero la radice comune a ciò che chiamiamo esistente, questo come si forma, come assume la realtà forma, consistenza, moto?
Perché Panikkar, e con lui tutti i ricercatori dell’interiore di tutti i tempi, afferma che lo scomparire è niente anche se a noi sembra tanto, così importante sia la goccia che il suo dissolversi?
Perché il processo da goccia ad acqua è ineluttabile?
Le risposte a queste domande non sono poi così difficili: esistono fonti autorevoli che dalla dimensione della coscienza parlano di questo argomentando secondo logiche coerenti, non facendo ricorso agli argomenti della mistica, ma giungendo alle stesse conclusioni di questa.
Ma, dal punto di vista di chi scrive, la questione non è questa:
posso io, persona immersa nel reale, sperimentarne la natura?
La risposta è si, anche senza la conoscenza che deriva dal sapere, attraverso la conoscenza che sorge dallo sperimentare.
E’ sperimentabile la natura della goccia e, guardando nella sua profondità, è sperimentabile la natura dell’acqua: sperimentate entrambe, si configura nell’interiore la chiarezza dell’inconsistenza della goccia.
Successivamente può essere utile una qualche strutturazione cognitiva dello sperimentato.
Questa esperienza della goccia e dell’acqua, è esperienza per pochi?
No è esperienza di tutti, approfondita in grado differente da ciascuno.

Immagine di Marcus Reygels, da: http://goo.gl/fy5Ee4


 

Abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?

Se potete, leggete questo bell’articolo apparso su “comune info”.
La prima parte parla della situazione, del silenzio perduto, della fretta, del scivolare sulla vita.
La seconda, della necessità di insegnare ai nostri figli a vivere sottovoce.
Vorrei fare delle considerazioni sulla prima parte: abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?
La mia tesi, molto semplice, è che l’umano vive ciò che ha compreso; ciò che non vive non è perché non lo vuole vivere, ma perché non ha compreso che esiste come possibilità per sé; lo vede magari vivere dagli altri, ma non lo sente adatto a sé, praticabile per sé: nei fatti, non lo considera perché non lo comprende.
Il bel brano di Orso parla di un’altra cultura, di altre priorità esistenziali, forse di un altro sentire: il nostro mondo ha ciò che crea e questo sorge dal suo sentire, da ciò che ha compreso attraverso le esperienze e la macerazione che queste producono.
Sorge anche dalla sua cultura? Certamente, ma questa non è che il riflesso del compreso e del non compreso dei singoli e dell’insieme.
Cosa dunque possiamo fare? Vivere il compreso, testimoniarlo con grande discrezione, operare nel piccolo come nel grande perché elementi di autenticità vengano inseriti in un impianto culturale ed esistenziale caratterizzato dalla futilità.
Quello che l’autrice dice nella seconda parte dell’articolo è veramente importante, da lì si può partire sapendo che nessuno aderisce a ciò che non ha compreso, ma il proporre modelli, stimoli, pratiche, abitudini attiva processi profondi e facilita il percorso delle comprensioni in maturazione.
Se comprendiamo che ciò che l’umano vive non è il frutto della malafede  – la quale, anche quando è presente, è conseguenza, non origine – ma solo della non conoscenza, della non consapevolezza, della non comprensione, allora il nostro sguardo sul mondo diviene intriso di compassione e questa è un fattore determinante nel produrre il cambiamento dei sentire, prima e ultima sorgente di ogni cambiamento.

Immagine da: http://goo.gl/51KNUk


 

Esserci con dedizione, privi di scopo: la vita guidata dal sentire, non dalla mente e dall’egoità

“Sento forte l’esigenza di scomparire, mi metto però a disposizione, dove ritenete più concreto il mio supporto, io ci sono.”
Questo afferma un amico, membro della Comunità del Sentiero. E’ una disposizione che riguarda diversi di noi, è quello che perseguiamo, l’orizzonte esistenziale del nostro cammino: esserci, darci, osare, non stancarci, accettare la sfida della trasformazione continua e, simultaneamente, essere vuoti di scopo, non avere nulla da raggiungere, nulla da dimostrare.
Tutto inizia e tutto finisce in quella situazione, in quell’atto, in quel gesto; conciliando le esigenze personali, quelle della famiglia, quelle del lavoro con la vita della comunità, a nessuno è chiesto qualcosa in modo diretto: tutti offrono, possono offrire sulla base di una spinta che sorge nel loro intimo e ad essa obbedire.
Ad essa, a quella spinta che sorge dal sentire, si obbedisce, non a qualcuno nella comunità, nella società: l’azione senza scopo vale per tutte le situazioni, certamente non solo nella piccola realtà di una comunità.
Quell’obbedire, quello scomparire dicendo sì, avviene senza discernimento? Si obbedisce alla propria vita, non a qualcuno; si dice sì al proprio sentire, non ad un capo; si va, si risale all’origine stessa della spinta che ci conduce ad operare e a vivere. Certo, si può fraintendere quale sia il proprio sentire: si imparerà da questi fraintendimenti e si aggiusterà il procedere di conseguenza.
Questo osservare la spinta e le sue conseguenze, è il discernimento che si opera:
– si ascolta il sentire;
– si aderisce all’impulso ricevuto;
– si sperimenta;
– si osserva il processo che dall’intenzione ha condotto all’azione e ai risultati di questa;
– si operano le correzioni necessarie;
– si impara dagli errori, dai limiti.
Se quella spinta non è condizionata da sfumature egoiche, gli impegni presi non costano, sono magari faticosi ma di quella fatica che apre vie, non le seppellisce sotto il logoramento e la frustrazione.
Il movimento dello scomparire è dato dal soggetto che inizia a interpretarsi come irrilevante, non importante, non necessario: dalla sua inutilità sorge l’aprirsi dell’orizzonte esistenziale che, allora, è occupato solo dall’essere.
La scomparsa di sé apre l’immenso spazio dell’esistere: non dell’io esito, ma del ciò che è.

Immagine da: http://goo.gl/Wch7vL


La gratuità

Il cammino dalla identificazione alla contemplazione è quello che chiamiamo il processo della gratuità.
Per un lungo tratto di strada generiamo e fruiamo le scene della nostra vita condizionati da uno scopo, da una finalità: procurarci un tetto, un sostentamento; essere accolti ed apprezzati; possedere uno spazio esistenziale di manifestazione.
L’ambiente nel quale viviamo è il luogo della nostra rappresentazione, dell’espressione del compreso e del nostro compreso: le situazioni che viviamo formano l’immagine di noi, ci conferiscono il senso di esistere, di essere vivi, di essere.
Ciò che viviamo è la nostra vita, di questo siamo consapevoli e convinti: esiste un soggetto, esiste un oggetto, esiste una relazione tra soggetto ed oggetto.
Così ci sembra che sia e così perseveriamo finché dura.
Ma non dura per sempre: sopraggiungono le crisi che non solo relative all’identità e ai suoi processi, sono valichi esistenziali, passaggi da una stagione ad un’altra della vita e del sentire interiore.
Stagioni della coscienza sono ritmate dalle crisi e dalle comprensioni, le une preparano le altre.
Ciò che ci conferiva senso non ci parla più, è divenuto muto. Ho già affrontato tutto questo, ora non ci torno.
La nuova stagione ci chiede di muoverci indipendentemente dal senso, aldilà di esso.
Facciamo le cose, viviamo le scene e i processi senza adesione, senza identificazione: esse sono ciò che sono, non abbiamo bisogno che ci piacciano, che ci gratifichino, che ci conferiscono senso.
Abbiamo compreso che la necessità di senso risiede nell’identità e non possiamo, né riusciamo più a coltivarla sistematicamente: affiora e scompare come una boa tra le onde.
Osserviamo la danza tra identificazione e non-identificazione e, in fondo, non ci interessa granché.
Osserviamo i nostri umori e anch’essi, in fondo, ci sembrano lontani.
Questa che ho descritto è la seconda fase, quella che succede alla predominanza del soggetto: l’identificazione non è più insistente, la disidentificazione affiora e avanza ma l’orizzonte è ancora confuso.
Bisogna darsi tempo, l’umano cambia solo attraverso le esperienze che avvengono nel tempo.
Di che cosa si riempirà l’orizzonte?
Della libertà di non avere né scopo, né senso. Della vita nella gratuità.
Gratuità significa:
– senza nulla da perdere;
– senza nulla da guadagnare;
– senza alcuna posta in gioco;
– puro accadere che si presenta, che ci interpella, dal quale impariamo senza ansia e senza la volontà di imparare;
– azione generata perché la situazione lo richiede, oltre il “mi piace-non mi piace”, “mi interessa-non mi interessa”, “mi riguarda-non mi riguarda”.
La gratuità è il semplice gesto del vivere dove il soggetto è ridotto ai minimi termini e l’oggetto è solo quel che è.

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