costanza

Conoscenza, costanza, perseveranza

A noi sembra che in questo tempo l’approccio allo spirituale e all’esistenziale avvenga molto spesso, non sempre naturalmente, in maniera prevalentemente affettiva.
Come moto del cuore, direbbe qualcuno. Come adesione fondata sulla simpatia e sull’empatia, aspetti dell’affettivo in noi.
Le meditazioni guidate, le atmosfere, le piccole o grandi ritualità  alimentano e sostengono questo approccio.
E’ un dato di fatto, non abbiamo considerazioni particolari da fare, così è questo tempo.
Ci sono, d’altra parte, orientamenti prevalentemente concettuali e altri eminentemente pratici, fondati sul fare.
Avendo ogni persona la necessità di trovare il proprio modo per incontrare se stessa, non possono che esistere molti e variegati approcci.
Noi abbiamo scelto un approccio che integra l’analisi introspettiva di sé, con lo sviluppo dell’atteggiamento meditativo e contemplativo: l’immanente del conoscere sé, con il trascendente dell’andare oltre sé, sottoponendo ogni passo alla verifica del quotidiano e delle relazioni.
Abbiamo sviluppato la forma dell’accompagnamento, dei gruppi, degli intensivi, della pratica della gratuità per mettere a disposizione un iter formativo che, nel tempo, accompagni il ricercatore.
La costanza e la perseveranza sono le sfide di chi ricerca: la via della conoscenza non è qualcosa che si consuma alla maniera dei beni effimeri, richiede il passo lento del montanaro, il darsi tempo e pazienza; il saper  aspettare, il sapersi rialzare.
Il saper andare in compagnia e da soli e vedere, magari, i propri compagni abbandonare il cammino.
Il ritrovare ogni giorno la motivazione.
Il saper affrontare le fasi di deserto, di svuotamento, di disorientamento.
Infine, il saper mantenere lo sguardo su di sé nonostante l’asino che raglia, nonostante le cadute e la pochezza di sguardo: continuare e continuare ad attingere alla sorgente della fiducia, unica forza che ci conduce nei giorni e nelle notti della nostra transumanza.

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maestro discepolo

L’insegnante e l’allievo

Tutti noi procediamo sulla base di ciò che ci piace o non ci piace; scegliamo le situazioni a partire da un moto di simpatia, di attrazione, di risonanza.
Tendiamo ad escludere ciò che non ci coinvolge e avvertiamo come lontano o faticoso.
E’ giusto questo procedere? Non lo so; personalmente mi sono confrontato deliberatamente molte volte con ciò che non mi suscitava particolare simpatia e sempre ne ho tratto grande insegnamento. In anni lontani, avendo necessità di comprendere come funzionava il mondo interiore di un cristiano, mi sono dedicato per anni alla pratica della preghiera e alla frequentazione e allo studio dei vangeli e del pensiero esegetico e teologico su di essi.
Non avevo attrazione per quel mondo ma, esistendo ed essendo parte del mio piccolo universo, ho desiderato conoscerlo, divenirne consapevole, comprenderlo.
Era lontano, ed io ero pieno di pregiudizi: alla fine del processo credo di aver compreso quel paradigma interiore, certamente ho superato i pregiudizi e, per quel che è possibile al mio sentire, ritengo di averlo compreso.
Al di là della mia esperienza personale, credo che sia nelle cose il discernimento operato sulla base dei moti di simpatia/antipatia: così opera normalmente l’allievo, colui o colei che si trova nella condizione di dire un si o un no ad un insegnamento, ad una via interiore.
E’ un atteggiamento parziale e limitato che non ci permette di accedere alla realtà delle cose, ma è un fatto che accade nella ferialità delle nostre vite e come tale lo prendo.
L’ottica nella quale si muove un insegnante è molto diversa, non gli è permesso di essere in balia di simpatia/antipatia, deve andare oltre, deve leggere la realtà con gli occhi della compassione che conosce quella antinomia e la supera.
Non solo: un insegnante (altri forse userebbero il termine maestro, ma a me non piace e condivido il monito di Gesù) si muove in una visione unitaria e ciò che dice, propone, insegna avviene come conseguenza di una profonda integrazione degli opposti e sulla base di un tentativo di superamento radicale di quello che è il suo limitato sentire.
Un insegnante cerca la verità dell’essere delle cose, la coglie inevitabilmente con il suo limitato sentire, la lascia decantare per depurarla di ogni aspetto personale e infine, quando avverte un sufficiente grado di neutralità e di verità, la propone.
Il risultato sarà dunque una verità? Non diciamo sciocchezze: sarà la verità parziale a lui/lei accessibile su quel fatto, in quel tempo, a partire dal sentire acquisito e conseguenza del processo descritto.
Quindi sia la verità dell’allievo che quella dell’insegnate sono relative e frutto di un discernimento assolutamente personale? Si.
La differenza sta nel fatto che l’insegnante ha una responsabilità che l’allievo, forse, non ha: ciò che afferma non deve essere condizionato dal pregiudizio e dall’ignoranza, anche se, inevitabilmente , lo è dai limiti della sua comprensione.
L’insegnate ha la responsabilità di ciò che offre, di dove conduce, di come influenza, del piccolo mondo che mette a disposizione di qualcuno che di lui/lei si fida e gli si affida.
Ciò che insegna dovrebbe essere innanzitutto la sua vita, sorretto dalle mille piccole verifiche che solo il quotidiano permette, e dovrebbe essere passato dentro il vaglio della consapevolezza della propria interiore piccolezza, altrimenti chiamata umiltà.

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compassione

Vedere la realtà con gli occhi della compassione

Si può vedere e partecipare la realtà con gli occhi della mente che tutto fraziona, tutto giudica, tutto attribuisce.
Si può vedere e partecipare avvolti nel manto delle emozioni e delle affettività che tutto colorano creando trasporto e partecipazione.
Si può infine vedere e partecipare la realtà con l’ampiezza del sentire che tutto abbraccia e nulla discrimina, che tiene insieme le parti e considera il processo più che il singolo fatto, che comprende la realtà sempre in termini unitari.
All’interno del sentire, può sorgere come dono il fiore della compassione che di tutto si avvede, a tutto provvede nella discrezione, con tutto procede nella vicinanza, nella comprensione e nel sostegno, sempre un passo indietro consapevole della propria irrilevanza.
Si può insegnare la compassione? Dubito, anche se ci si può disporre, di certo si può vivere per quel che ci è dato.
Si può coltivare assieme? Si, può essere il piccolo germoglio che la coppia, la famiglia, la comunità, il gruppo di colleghi coltivano a tutte le ore, senza sforzo, semplicemente avendola presente allo sguardo.
Può un cammino come il Sentiero fare della compassione la propria essenza? Lo ha già fatto, nel momento in cui ha edificato le fondamenta del proprio procedere sul limite considerandolo il primo tra tutti gli insegnanti.

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avanti

Solo passi in avanti

Per quanto ci possa sembrare assurdo, anche quando il nostro limite si mostra evidente e il cadere è rumoroso, prepariamo un passo in avanti, stiamo gettando le basi di una nuova comprensione.
Comprendere è un processo non lineare: nella mente che semplifica, 1+1 fa 2; nella realtà, il due è spesso la risultante di una serie di sottrazioni.
Perché? Perché la comprensione, il fare un passo in avanti riguarda sempre un limite del nostro sentire: manifestandolo, marcandolo lo sperimentiamo, lo “paghiamo”, ne diveniamo consapevoli e avviamo il processo del superarlo.
Molte cadute, dunque, danno luogo ad un passo in avanti.
Mi si osserverà a questo punto che, se tanto il cadere dà luogo ad un avanzamento, perché mai non dovremmo indulgere nel peggio di noi?
Vi rispondo: voi vi divertite a vivere il peggio di voi stessi?
Noi cambiamo solo attraverso le esperienze, accettando di imparare da esse. Conta la volontà di imparare?
Certo, ma se non è associata all’osare, al buttarsi, all’accettare di sbagliare facendo, è solo un imperativo morale improduttivo.

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atomi dell'assoluto

Compassione, forse

Siamo atomi d’aria nel respiro dell’Assoluto.
Ogni giorno, ad ogni ora proviamo a conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Piccolo o grande che sia l’asino in noi, ciò che esprimiamo è sempre e solo un tentativo, un approccio, un’approssimazione, il segno di un incedere.
Prima di aprire la bocca, dubio di quello che dirò.
Mentre compio un’azione, so che sarà limitata.
Quando mi approssimo a te, so che farò difficoltà a vederti, ad ascoltarti e, a volte, il mio accoglierti è solo maniera.
Vedo l’irrilevanza e l’irrealtà di me e mi fermo, non c’è ragione da dimostrare, qualcosa da aggiungere.
Non c’è tristezza, compassione forse.

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maestro

Il primo ed ultimo maestro

Il nostro cammino di trasformazione avviene con poche persone, quelle che ci danno la vita: i nostri genitori; quelle con cui condividiamo il nostro quotidiano: il partner, i figli, i colleghi di lavoro, il datore di lavoro, i dipendenti.
Impariamo attraverso quelli che ci sono vicini, al fianco; quelli che non riconosciamo come maestri, perché il maestro è sempre altro, in un altrove, è sempre speciale.
È un errore madornale: il maestro di ciascuno è la persona più vicina che ha, chiunque essa sia.
Se avremo il coraggio di aprire gli occhi su questa persona, su queste poche persone, avremo trovato la chiave della nostra vita, la chiave per superare il condizionamento.
Dal libro L’essenziale, Ed. privata, pagina 46

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domande esistenziali

I laici e le religioni

[…] L’opinione laica sembra infatti ben disposta a interloquire su tematiche filosofiche o persino spirituali, concedendo una patente di credibilità dialogica a riflessioni sulla vita, la morte, l’al di là, i valori universali… mentre appare refrattaria, distratta, non reattiva quando il papa affronta tematiche molto più “laiche”, come il sistema economico-finanziario disumano, la dignità di ogni persona a cominciare dai poveri, i migranti, i profughi, il commercio delle armi, le strutture e gli assetti politici e sociali che alimentano ingiustizie: i silenzi che hanno accolto i suoi appelli contro la terza guerra mondiale in atto o contro la persecuzione delle minoranze, cristiane o meno, sono sintomi preoccupanti di un dialogo che ha timore di affrontare frontalmente questioni imbarazzanti per i rapporti di forza esistenti nel mondo. Ma il dialogo autentico non ha come finalità i massimi sistemi: da quelli prende le mosse per chinarsi sul bene più prezioso che ci è dato di possedere e che a tutti va garantito, la vita umana.[…] Enzo Bianchi, Avvenire, 28 aprile 2015.
Credo che i laici abbiano una domanda esistenziale che non trova risposta e per questo indagano, interloquiscono, chiedono a chi, presumono, a quella domanda dovrebbe aver trovato risposta.
Non è questa la funzione delle religioni? Proporre all’umano un cammino di unificazione interiore, di senso, di ancoramento ai valori fondamentali, all’essenziale?
Credo altresì che i laici vogliano riservare a sé e ai processi politici, economici, sociali il superamento delle spaventose diseguaglianze e ingiustizie che attraversano il pianeta.
Mi sembra che nella coscienza laica ci sia sufficiente consapevolezza di una divisione dei ruoli che affida alla religione la vita interiore, e alla politica quella di relazione.
Questa consapevolezza laica marca, probabilmente, un limite: la non chiara comprensione che ogni mutamento esteriore trae origine da un cambiamento interiore. Se i laici avessero ben compreso questo, la politica che essi esprimono avrebbe ben altra natura.
Questa lucidità di sguardo c’è invece nelle religioni in genere, che pongono al centro di ogni processo il cambiamento del “cuore” dell’uomo.
Rimane da vedere e da chiarire se e in che misura, le religioni rispondono alla fame esistenziale delle persone: a mio parere in una misura molto scarsa.
Il cattolicesimo, in particolare, sembra prigioniero di se stesso, della propria tradizione, della propria teologia, del verso consolidato dal quale ha guardato e guarda all’evento che l’ha generato: la vita, la morte, la resurrezione di Gesù, il Cristo.
Credo che il mondo interiore dei laici chieda ai cattolici la capacità di rigenerare il paradigma cristiano, di trovare gli alfabeti nuovi di una interpretazione simbolica ed esistenziale dell’archetipo del Cristo che parli alle loro menti e ai loro cuori in maniera, per loro, credibile ed efficace.

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incontro

Il dialogo umano, religioso e spirituale

Dice Enzo Bianchi nell’articolo pubblicato da Avvenire il 28 aprile riguardo al dialogo tra credenti e con i non credenti: ” Il dialogo dunque va praticato come via di costruzione di un mondo che crede alla forza della parola e rifiuta di affidarsi alla parola della forza.”
E’ un’affermazione più che condivisibile: dialogare, incontrare il punto di vista dell’altro, proporre il proprio, non stancarsi di esserci e di disporsi, tutto questo è il fondamento del rispetto, della pace, del dispiegarsi delle possibilità.
E’ sufficiente a creare una comunicazione autentica? No, a mio parere.
Quando una comunicazione è autentica? Quando coinvolge tutti i livelli dell’essere: l’ambito delle sensazioni, delle emozioni, del pensiero, del sentire di coscienza.
Nell’interezza dell’essere, la comunicazione diviene comunione d’essere.
Spesso, non sempre, il dialogo religioso e spirituale è dialogo tra le menti: confronto su esperienze, su visioni, su prospettive, su problematiche.
Spesso non c’è tempo, o disponibilità per andare oltre concedendosi ad una esperienza più vasta che apra sulla possibilità di una comunicazione/comunione.
Quali condizioni sarebbero necessarie? Darsi tempo, condividere giorni, vita ordinaria, prossimità. Permettersi esperienze comuni, tempi di silenzio, di fare e di stare.
Dilatare l’incontro oltre il confronto, farlo divenire il gesto di impastare delle vite: allora la preponderanza dell’elemento cognitivo lascerà, pian piano, il posto all’incontro dei sentire, all’incontro delle coscienze che in sé contiene gli aspetti emozionali e cognitivi, senza che questi prevalgano a discapito dell’unitarietà dell’esperire.
A noi sembra che il dialogo umano, religioso, spirituale autentico avvenga quando i dialoganti sono capaci di andare oltre le proprie identità e le proprie menti, per incontrarsi ad un livello più profondo dove l’io/tu viene superato e lascia lo spazio al noi che dichiara l’essere piuttosto che l’esserci.

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karma

Le cose fatte bene e quelle fatte male

Non conta quante volte hai fatto bene, conta quando il tuo raglio si sente da costa a costa.
Perché? Perché è dal raglio che impari, è lui che ti rende migliore se ne comprendi l’origine e la manifestazione.
Allora le cose fatte bene che fine fanno? Finiscono nella “contabilità generale”, in quello che viene definito il karma positivo.
Le cose fatte male muovono quello che chiamerei il karma produttivo, quello che genera opportunità nuove di apprendimento.
Ciò che è venuto male per un difetto di comprensione, si ripresenta e si ripresenta fino a quando non viene fatto bene.

Come nasce il Karma, C.Ifior, pdf.

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coscienza

La coscienza crea la realtà

Per quanto ci sembri irreale, non siamo noi, piccoli portatori di nome, a creare la realtà.
Noi stessi siamo creati attimo dopo attimo, fotogramma dopo fotogramma, dal sentire di coscienza.
Tutte le scene che viviamo, tutti gli affetti, tutti i progetti, tutte le mansioni sono generate dal sentire.
Quale realtà crea la coscienza? Quella possibile, compatibilmente con le comprensioni acquisite e con quelle da acquisire.
Siamo dunque solo burattini? No, se comprendiamo che identità e coscienza sono unità inscindibile.

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