Non bisogna affrettarsi oltre: anche se è vero che costruire Budda è direzione e meta, non bisogna creare un equazione: natura autentica = costruire Budda. Udendo l’espressione: la natura autentica è niente, bisogna restare lì, a sondare non il niente, che non ha senso sondare, ma il criterio per cui, mentre diciamo niente, continuiamo a dire natura autentica.
[→uma] “Udendo l’espressione: la natura autentica è niente, bisogna restare lì, a sondare non il niente, che non ha senso sondare, ma il criterio per cui, mentre diciamo niente, continuiamo a dire natura autentica”.
Perché non ha senso sondare il niente se questo è l’Essere, la natura autentica? Si sostiene qui che il niente è vuoto, sottrazione, assenza? Se non è questo, se il niente è ancora sinonimo di natura autentica, allora come non investigarla contemplandola? L’esistere, il vivere è questa investigazione/manifestazione della natura autentica, non altro, tutto è manifestazione/investigazione/contemplazione della natura autentica, niente di altro a me sembra. [/uma]
«Allora, venendo ora al sesto Patriarca, è ovvio che egli si applicasse sull’espressione natura autentica niente. Lasciato da parte il nulla di essere e non essere, doveva porsi davanti alla domanda: In verità che cosa è la natura autentica? Doveva chiedersi: Invero quale cosa è mai questa natura autentica? La gente di oggi, sentendo parlare di natura autentica, non si interroga su che cosa è; ma si affretta e si affanna a disquisire se la natura autentica sia essere o non essere, e simili problemi, come fosse questo il punto». È proprio così: troppo spesso noi riponiamo la nostra fede non nel modo di vivere la vita, ma nel credere in qualche cosa che da senso alla nostra vita se ce lo appiccichiamo sopra. Come se la nostra fede nel senso della vita potesse venire da qualcosa che è esterno alla nostra vita. Allora è fondamentale credere in niente, perché riporta il credere nell’ambito in cui diviene intima forza vivificante. Per questo il passaggio attraverso il nulla ci purifica e ci rigenera: e soprattutto il nulla di ciò che per noi è più da venerare, per evitare che diventi un idolo da idolatrare. Tutte le esperienza di nulla e di rigenerazione della nostra vita sono racchiuse qui:« il niente dei vari niente, va appreso dal niente di: la natura autentica niente».
[→uma] Nel Sentiero diremmo che non si tratta di credere ma di aderire: non di credere al fuoco interiore (quello che Jiso chiama fede) ma di sentirne, coglierne la forza vitale obbedendola. Non dunque un atto di adesione a un impianto di credenze, a un archetipo transitorio, un aggiungere, un portare sé verso una data fonte, ma qualcosa che sorge solo quando si è in profondo ascolto di sé e si coglie – inequivocabile a volte, sussurrata altre volte – quella forza che è anche direzione e destinazione, che è chiamata alla vita abbandonando ogni idea sulla vita, che è determinazione senza concessione perché quella forza è avvertita come l’alfa e l’omega, noi quella siamo e non abbiamo possibilità di scampo, né la cerchiamo. [/uma]
Allora prende senso la frase: «Per l’uomo c’è il Sud e il Nord, per la natura autentica non c’è né Sud né Nord». Doghen dice addirittura che in questa espressione c’è il cuore della religione, c’è il cuore di ogni religioso. Dobbiamo valutarla con attenzione e non correre alla sciocca conclusione* che l’uomo vive nel mondo relativo in cui servono concetti come Sud e Nord mentre nel mondo della natura autentica, che è l’assoluto, ogni concetto relativo si scioglie.
Chi pensa che la verità consista nell’annullamento delle differenze è più che mai lontano dalla verità.** Questo rapporto fra il relativo e l’assoluto è davvero il cuore della religione: solo gli stupidi possono pensare di risolverlo con qualche formuletta e di esimersi così dall’impegno quotidiano di affrontarlo ogni mattino con spirito rinnovato. Il pescatore sa che se non pesca ogni giorno non mangia, sa che il pesce pescato ieri oggi non è più pesce fresco appena pescato. Perché mai il religioso dovrebbe ignorare che se non attua ora la sua fede essa semplicemente non è fede, perché la natura autentica di ieri è andata con ieri?
[→uma] */** Affermazioni pesanti che, dopo più di un ventennio da quando sono state scritte, suscitano in chi le legge la giusta comprensione e distanza. Chi può negare che la natura autentica di un attimo fa non è la natura autentica di adesso? Cosa c’entra questo con il rapporto tra relativo e assoluto? Quando siamo nell’esperienza della natura autentica, nella contemplazione di essa, siamo oltre quella dicotomia, siamo nell’unità che supera ogni contrapposizione e certo non ha alcun senso parlare di “attuare ora la fede”: cosa fa il contemplativo se non quello, senza fine?
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
- → Contemplare il paradigma del Cerchio Firenze 77:
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