Questo capitolo de La natura autentica è uno dei più importanti per aiutarci a sgomberare il nostro modo di pensare da radicati pregiudizi all’apparenza perfettamente legittimi.
Credo di dover mettere sull’avviso chi legge, perché è più che mai necessario mettere all’opera tutto il proprio acume nella lettura e nello studio: intendendo per acume non una eccezionale capacità di concentrazione né una particolare brillantezza di comprensione, ma la qualità di voler penetrare nel testo, oltre le espressioni idiomatiche, per e fino a comprendere che si tratta di chiedere a se stesso: «Quale è il senso dell’esistere, dell’essere vivo ora?» Problema inesauribile, che non si può risolvere una volta per tutte e per tutti, perché si ripropone ogni volta che un essere umano viene alla vita.
Doghen ci indica che non ci sono formule per risolvere e neppure per affrontare questo problema, ma che esso si presenta con la vita di ognuno e con la vita stessa si affronta e si risolve. Inoltre, qui non ha nessuno peso il tipo di fede professata o il non professarne alcuna, né il linguaggio usato per trattare a parole la questione: che la persona si professi cristiana o buddista o atea, che usi il linguaggio che parla di natura di Budda o di Dio o di evoluzione naturale, questo non modifica l’universalità del problema né la sua singolarità, nel senso che esso si pone a ciascuno di noi. Cerchiamo quindi di leggere anche le espressioni che a prima vista ci appaiono più lontane dalla nostra sensibilità e modalità espressiva, coscienti che si tratta di parole che vogliono costringere noi a interrogarci su ciò che è alla base del nostro esistere. Le espressioni che ci appaiono ostiche non ci fanno questo effetto solo perché sono di provenienza estranea alla nostra cultura, ma perché sviscerano un problema tanto comune a tutti quanto difficile per tutti: un problema comune da affrontare con mezzi non comuni.
Dobbiamo pensare di essere noi stessi che domandiamo a noi stessi: «Tu, da quale mai luogo vieni?». Questa è la vera funzione di una guida spirituale, di un maestro, che è tale solo perché c’è un discepolo che lo usa in quel ruolo: porci la domanda che noi dovremmo porre a noi stessi, ma che non osiamo o che non abbiamo chiaro di dover porre. Se siamo noi a chiederci: Io, da dove vengo?, è evidente che non potremo essere soddisfatti da una risposta che dice solo la provenienza geografica o il luogo di nascita. Però, potrebbe anche darsi che io, senza perdermi in congetture astruse e vagamente metafisiche sulla mia origine, risponda a me stesso e a chi mi interroga in proposito dicendo che il luogo della mia nascita e provenienza geografica è in fondo il luogo concreto della mia provenienza esistenziale e originaria: la forma del mio essere vivo è né più né meno la forma della vita che in me prende forma, per cui il luogo fisico da cui provengo è proprio il luogo dell’origine di me come sono, senza che ci sia sotto null’altro.
[→uma] Difficile comprendere di cosa Jiso stia parlando. [/uma]
Però, se è così, se colui che viene ha davvero questa consapevolezza, allora cosa viene a fare, che senso ha questo esserci, questo andare in giro in cerca del proprio senso, della propria direzione? Nel caso del nostro testo, se il futuro sesto Patriarca avesse avuto ben chiaro il fatto che la sua esistenza contiene in sé la propria ragione d’essere e la propria funzione fondamentale (come la sua semplice risposta sembra voler dire) perché mai è andato in pellegrinaggio dal quinto Patriarca? Nel mio caso personale, se io penso che il luogo da cui vengo sia semplicemente il luogo in cui sono nato, senza bisogno di aggiungere al fatto reale nessun recondito e imperscrutabile motivo, perché non mi accontento della mia vita così come mi si offre e sento il bisogno di seguire un cammino religioso, di avere una fede, di praticare, di pormi tante difficili domande su me stesso e sulla vita?
Perciò il quinto Patriarca non si accontenta e chiede ancora: «Sei venuto a cercare che cosa?». Il sesto Patriarca dà una risposta molto semplice e diretta: «Cerco il modo di costruire Budda». Non dice: “Cerco il modo di diventare Budda”, ma: cerco il modo di costruire Budda che è opera personale e universale insieme, un lavoro su se stessi e una parte del lavoro eterno della realtà tutta intera, perché Budda è la meta universale di ogni essere e inscindibilmente di tutto ciò che esiste. Costruire Budda è tutt’altra cosa dalla ricerca del perfezionamento individualizzato: è l’opera di tutta la realtà, cui ciascuno partecipa in modo diretto e unico con l’applicazione della propria esistenza.
[→uma] “Cerco il modo di costruire Budda”: né Tollini né Carl Bielefeldt fanno la distinzione tra costruire e diventare e questo mi dice che c’è un equivoco di fondo – o che semplicemente Jiso ha preso pretesto dalla situazione per sviluppare il suo discorso – essendo la natura di Buddha esistente a prescindere. Ciò che diviene è il sentire, i suoi sensi, che permettono a quella dimensione ultima di essere/accadere ora nella consapevolezza, quando possibile, e nella pratica vissuta.
Essere/accadere nella consapevolezza di questo istante, nell’azione di questo istante: questo è il centro della questione in merito alla natura autentica dato che noi non diventiamo quella ma quella È noi e diviene noi nell’illusione del tempo. “Diviene noi” nel senso che si palesa nella progressione del sentire e del tempo cronologico.
Non dobbiamo dimenticare che quel “noi” non è reale mentre reale è la natura autentica: più aderiamo all’illusione di essere un noi più siamo coloro che costruiscono e che diventano, ma se abbiamo compreso che quello che chiamiamo “noi” altro non è che l’addensamento, la manifestazione, l’incarnazione di un grado di sentire che si manifesta ora, allora sapremo che il “noi” di adesso non è il “noi” di ieri né sarà il “noi” di domani e questo perché è un fattore impermanente determinato dal grado di sentire in manifestazione.
Il sentire è dunque reale (ma, come sapete, anche su questo c’è da discutere) perché è esso che genera noi e le nostre scene: se questo ci è chiaro, allora non è difficile comprendere cosa sia la natura autentica:
– è il sentire compiuto e strutturato, quello che forma l’Individualità;
– è ogni sua declinazione contemplata;
– è tutti i gradi di sentire che seguono all’Individualità stessa nel suo processo di fusione che la porta a fondersi nel Sentire Assoluto oltre ogni separazione e sequenzialità.
È, insomma, come dico altrove, non un luogo ma uno stato della consapevolezza, tutti questi gradi evolutivi cui accenno non sono che gradi della consapevolezza che da parziale e duale diviene unitaria:
→ quando è l’unità che inizia a dominare, allora cominciamo a parlare di natura autentica.
Finché c’è frammentazione – e non c’è la consapevolezza della contemplazione – la natura autentica è come se rimanesse celata, ma non appena in questo specchio che chiamiamo “noi” si riflette un sentire in qualche modo unitario allora noi sentiamo che la natura autentica È.
Che essa È, non che noi la diveniamo.
(Che senso ha questo dettagliare che sto compiendo? Non sarebbe più facile lasciare la nozione di natura autentica in un indistinto? Dipende dalle nostre esperienze: non sto filosofeggiando, sto esprimendo la complessità di esperienze percettive a livello di sentire, sto cercando di esprimere le molte sfumature di una esperienza interiore che non è un dato univoco ma una complessità ricca e articolata e dunque chiede un linguaggio e una comunicazione corrispondenti.)
Cosa significa: ogni sua declinazione contemplata? In contemplazione – mentre viviamo quella condizione di consapevolezza – ogni stato è Ciò-che-È, quindi qualunque grado di sentire sia in manifestazione, è Ciò-che-È, indipendentemente dalla sua ampiezza e strutturazione.
L’esperienza del Ciò-che-È abbraccia tutti i gradi di sentire, come si evince dall’immagine sotto: quando dall’osservare, dal percepire la dimensione del divenire/saṃsāra passiamo al sentire – e dunque entriamo in contemplazione – con il sentire come focus della consapevolezza, ogni stato, di qualunque natura e ampiezza, è semplicemente Ciò-che-È.

Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
- → Contemplare il paradigma del Cerchio Firenze 77:
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