L’esperienza della vacuità e dell’inutilità da non confondere con la depressione

Non credo esista persona della via spirituale che non si confronti con l’esperienza dello svuotamento di senso.
Probabilmente non esiste persona che non si confronti con questa condizione interiore che, ciclicamente, si presenta all’esperienza umana.
La realtà viene sperimentata come vuota, priva di senso, incapace di attivare risposte e reazioni interiori: di fronte ad un accadere, a dei fatti, a delle situazioni o al semplice essere dei giorni la persona non prova interesse particolare, non sente l’accadere suo, non le riesce di attivare processi di identificazione.
La realtà le appare come fatto né interno, né esterno.
E’ un preciso passaggio esistenziale che si ripete ciclicamente, come tutte le cose che hanno bisogno di essere rivisitate più volte per essere conosciute e comprese.
La mente tende a mettere etichette su tutto e anche su questa esperienza esistenziale opera le sue riduzioni e approssimazioni: le sembra che definirsi depressa sia una sintesi accettabile, che quell’etichetta possa almeno contestualizzare uno stato.
Se fossimo capaci di utilizzare paradigmi esistenziali per leggere i nostri stati, non parleremmo di depressione; purtroppo, siamo così limitati nella interpretazione di noi che spesso non sappiamo guardarci con altri occhi e sviluppare altre letture.
Lo svuotamento e la perdita di senso sono il pane del cammino interiore e la loro esperienza ci interroga e ci interpella: se nulla ci appare apportatore di senso, è perché siamo ammalati? Siamo sani quando la nostra vita ci sembra valga la pena di essere vissuta?
Sano/non sano; senso/non senso: c’è una possibilità di non lasciarsi stringere dentro questa morsa duale?
Quale esperienza si può configurare, ci può attendere oltre quella del senso o del non senso?
E’ possibile vivere non curanti, non prigionieri di questa dicotomia?
Certamente, l’orizzonte altro si chiama gratuità.

Immagine da: Susanna Bertoni http://is.gd/xRMCwt


Quando in una coppia muore l’amore fino ad allora conosciuto

Quanti abbandoni del conosciuto e dello sperimentato, quante crisi dei riferimenti consolidati debbono sperimentare i partner in una coppia?
Quante volte il loro rapporto deve cambiare profondamente natura? Tante.
Prima o poi l’innamoramento lascia il passo all’affetto e questo, nel tempo, è così appannato dalla routine che sembra che i due non abbiano più legame.
Erano carichi di bisogni e sembrava che l’altro fosse colui, o colei, che poteva rispondere, poteva appagarli; sapeva comunque gettare uno sguardo, darti del tempo, esserci.
Negli anni l’hai perso/a di vista: ti dorme accanto, ci parli, avete forse anche dei figli insieme; uscite la mattina, tornate la sera ma la routine via ha piallato il cuore.
Non c’è più niente, dite.
I bisogni rimangono e l’altro non risponde, non li copre con la sua mano, con la sua presenza.
Dite anche un’altra cosa: siamo al capolinea.
Tutti i rapporti arrivano al capolinea perché tutti i rapporti mettono a nudo i nostri bisogni, il nostro esserci o non esserci, la nostra capacità di relazione e di donazione; la conoscenza di noi, dell’altro, i rifiuti, le paure: i rapporti sani arrivano al capolinea, ad un punto morto, allo svuotamento.
Le favole che la mente narra sull’amore possono condurre all’innamoramento senza fine: esperienza che alcuni conoscono; piccoli, grandi accecamenti autoindotti, quasi sempre.
I rapporti sani conoscono il deserto; le persone sane conoscono il deserto; le società sane conoscono il deserto.
Il deserto e l’assenza, la perdita del conosciuto e del rassicurante, il tempo della decantazione, dello stare, della sedimentazione.
I due, nella coppia, sedimentano: come nel silenzio, come nel sonno, come nella morte.
La sedimentazione dei vissuti, delle esperienze conduce alla consapevolezza e poi alla comprensione.
L’umano deve perdere per trovare; deve passare per il deserto per comprendere il valore dell’acqua, dell’ombra, delle risa dei bambini.
Quando a noi sembra che tutto sia finito, in quel momento il nostro problema non è chiudere l’esperienza, è indagare sui nostri bisogni e su quelli dell’altro, sul nostro esserci, sul nostro fuggire, sulla nostra dedizione, sulla nostra latitanza: in quel momento si apre a noi la possibilità di vederci, conoscerci, divenire consapevoli, comprendere.
A partire da questo movimento interno che ciascuno dei due vive, o che almeno uno dei due vive, si può riprendere il cammino comune: la stagione dell’innamoramento è lontana; quella dell’affetto routinario superata, che cosa ci attende allora?
La capacità, possibilità di imparare finalmente ad amare.

Di questo parleremo il 26-28 settembre durante l’intensivo del Sentiero contemplativo al monastero camaldolese di Fonte Avellana (PU)

Immagine da http://donna.nanopress.it/?p=323749


essenziale

Il cammino nell’essenziale, gruppo del sabato: meditazione e formazione all’Eremo dal silenzio, San Costanzo (PU)

Un percorso formativo permanente, una volta al mese, dieci mesi all’anno:
15,40-16,20 meditazione guidata statica e dinamica
16,20-17,30 esposizione del tema e discussione
17,45-18 meditazione guidata statica e dinamica
18-18,40 approfondimento di un tema della via spirituale, della conoscenza di sé, della relazione con l’altro, dell’essere della vita.
Il calendario.

Il percorso è accessibile anche a persone che non hanno confidenza con il Sentiero contemplativo purché siano disposte ad integrarsi, con la dovuta pazienza e disponibilità, nel cammino.

E’ necessario arrivare alle 15,30 e non oltre, muniti di sgabello o cuscino, tappeto da palestra, coperta.
E’ richiesta continuità di presenza.

Per iscriversi compilare il modulo seguente:

Essere cristiani è accettarsi in quanto mani di Dio nel mondo? Perchè Dio dovrebbe aver bisogno di mani?

Dal libro Confession d’un cardinal: “Vede, essere cristiani non significa soltanto credere nell’esistenza di un Dio. E non significa nemmeno credere soltanto in un Dio d’amore. Essere cristiani è accettarsi in quanto mani di Dio nel mondo. E’ mettersi a disposizione del progetto di Dio per il mondo.”
Ho estratto queste frasi dal bel libro di un anonimo cardinale scritto con Olivier Le Gendre, pubblicato in Italia da Piemme (2007) con lo stupido titolo “Orgoglio e pregiudizio in Vaticano”.
Prendo pretesto da queste frasi che rispecchiano il sentire proprio di molti cristiani, perché mi permettono di sviluppare una riflessione.
Esiste dunque Dio, ed esiste il mondo.
Il mondo è un luogo imperfetto.
Il mondo non conosce Dio.
Il “Figlio di Dio”, Gesù il Cristo, lo svela e lo rivela, lo rende presenza tangibile nell’esistenza umana: parola, gesto, conversione, contemplazione.
Il cristiano, colui-che-segue-il-Cristo-e-lo-incarna-per-come-gli-è-dato, è testimone creativo dell’amore operante di Dio.
Tutto questo mi interroga. Non posso considerarmi cristiano, non ho interesse per le rivelazioni e per le religioni che dalle rivelazioni sempre traggono linfa.
Ma mi occupo da lungo tempo di esistenza, di esistenze, di spirituale, di vita oltre la separazione e la dualità.
L’amore che, nonostante me e attraverso me, in alcune situazioni viene a trovare manifestazione, è l’amore di Dio?
Indubbiamente, direi; ma ho premesso: “Nonostante me”, cosa significa?
Quel limite che mi caratterizza, quella banalità che è la mia cifra, cosa sono? Sono riscattate dall’essere, a volte, strumento, veicolo di un gesto d’amore divino?
La mia umanità trova completezza, e forse riscatto, nel momento in cui è attraversata da qualcosa di più grande, di più ampio, di divino?
L’umano splende solo quando è il divino che accade, la-mano-di-Dio-che-opera altrimenti è solo marginalità, irrilevanza, ottusità?
Voglio sostenere una presunta grandezza dell’umano a prescindere dal divino? O voglio andare oltre la dicotomia umano/divino?
La seconda. Voglio affermare una cosa piuttosto banale: non esiste umano, non esiste divino, esiste sola la realtà.
Se la realtà non è giudicata, valutata, sezionata e divisa tra alto e basso, limite e non limite, umano e divino è solo realtà, il suo carattere unitario mai viene meno, l’umano non esiste come non esiste la mano di Dio nel tempo.
Se guardo alla realtà dell’umano e del divino come a due realtà, ho bisogno di una mediazione, di un mediatore o di una rivelazione; ma se vivo l’unità-di-ciò-che-è, di che cosa ho bisogno?
Questo ragionare non risolve però una percezione ed una interpretazione apparentemente indiscutibili: il mondo è un luogo imperfetto intriso di violenza, di non amore, di morte.
E’ così? E’ davvero il mondo un luogo di morte, o così appare all’umano, così viene percepito nella soggettività della propria visione?
Ciò che vediamo, che percepiamo è la realtà oggettiva o l’interpretazione/percezione soggettiva del reale?
Se adottassimo un altro paradigma per leggere la realtà, arriveremmo ancora alla conclusione che il mondo è un luogo di morte?
Non potremmo giungere alla conclusione che vita e morte non sono che concetti dell’umano, che tutto è ciò che è, che l’ingiustizia che ci sembra pervadere le ossa del mondo in realtà è altro?
Vi lascio con questi interrogativi.

Le immagini dell’intensivo di meditazione e contemplazione del 25-27 luglio 2014 al monastero di Fonte Avellana

Grazie alla dedizione di Roberto D’E possiamo rivivere alcuni momenti, alcune scene dense di sentire e di condivisione vissute nell’ultimo intensivo di meditazione, contemplazione, formazione, silenzio al monastero camaldolese di Fonte Avellana.
Vi ricordo che in questa pagina potete scaricare la lectio del priore Gianni Giacomelli: “Può il cristiano uccidere il Cristo se lo incontra? E se lo fa, che cosa gli resta?
(E’ necessaria la password per accedere, richiedetecela).

Un’omelia di Enzo Bianchi, promettere la propria vita a Dio e all’altro: è possibile promettere qualcosa che non si possiede?

Parto da un’omelia di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, tenuta in occasione della ricorrenza della trasfigurazione di Gesù e della professione monastica definitiva di un fratello, per sviluppare una riflessione su un tema che mi preme: promettere.
Mettere in vista, porre sotto gli occhi, mettere avanti è il significato di promettere.
Enzo Bianchi nella sua omelia dice cose impegnative, intrise di idealità, di slancio, di volontà come di abbandono: parla della comunione in Cristo, dell’uomo che promette, della coerenza che ne consegue, del peso di non essere affidabile se l’epilogo dell’esperienza vede l’intenzione originaria svanire.
Tanta idealità, tanto slancio, tanto peso. Questa è una prima e approssimativa conclusione cui giungo: tanto peso sulle spalle di chi apre la propria esistenza al processo del conoscere, del divenire consapevole, del comprendere.
L’umano che si affida, che si impegna, che fa una promessa, che dà una parola, di questo parla Enzo: rispetto questa visione, ma non ne condivido l’impianto ispiratore.
Su cosa posso impegnarmi? Su qualcosa che non mi appartiene, che non è conseguito nel mio sentire? Sarei destinato alla frustrazione, alla lotta contro me stesso, all’irretimento dentro qualcosa che non sento, ad una alienazione sostanziale.
Allora, su cosa posso impegnarmi? Su ciò che è già configurato nel mio sentire, anche se non ancora maturo e pienamente consapevole.
In questo caso l’impegno è alla mia portata, è sostenibile perché fondato non sulla volontà dell’identità, ma sul compreso che risiede nella coscienza, nel sentire.
Questo promettere comporta uno sforzo molto relativo e, in molti casi, nessuno sforzo.
Il Sentiero contemplativo è anche una comunità monastica, persone che vanno consapevolmente incontro a sé e alla condizione unitaria dell’esistere:
se questo cammino fosse basato sulla volontà, noi avremmo perduto in partenza;
se fosse fondato sulla idealità, non avremmo fondamenta salde;
se fosse fondato sulla responsabilità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle nel cammino, saremmo prigionieri della nostra promessa.
La nostra comunità è fondata sul sentire e i suoi membri ad esso obbediscono, ad esso si abbandonano, da esso sono guidati e condotti nei passi personali e in quelli comunitari: non alla volontà, non all’idealità, non alla responsabilità essi fanno appello, ma a ciò che risiede nel loro sentire, che li conduce incontro a questa esperienza e non lascia loro alcuna vera libertà di scelta, né di dire sì, né di dire no.
Possiamo noi parlare di promessa, di mettere avanti? Si, mettiamo avanti l’evidenza di non scegliere alcunché, di arrenderci a ciò che già esiste nel sentire e da questo è determinato.
Se le persone che sono parte dell’organismo comunitario fossero qui per scelta, noi avremmo sbagliato tutto e tradito il poco che abbiamo compreso: le persone sono qui perché non hanno potuto sciegliere, quello si è presentato, quello hanno riconosciuto, a quello si sono arresi.
L’identità, quando è legata alle proprie visioni e ai propri principi, sceglie, o crede di scegliere; quando non è più identificata con il proprio piccolo mondo sceglie molto poco, il più delle volete accoglie, obbedisce, asseconda, si piega al sentire.
Se nella nostra comunità fossimo legati anche, non solo evidentemente, dalla responsabilità nei confronti di Dio e degli altri, saremmo prigionieri: ciò che ci fonda è la comunione nel sentire, “l’essere uniti in Cristo/da Cristo” direbbe Enzo, questa unione e comunione è dinamica, fluida, responsabilizzante e liberante perché non si preoccupa di costruire, di preservare ciò che solo al sentire compete e da esso è alimentato, sostenuto, condotto aldilà della fragile intenzione umana.
Non sento pesi sulle mie spalle e sulle mie incoerenze; non ci sono pesi sulle spalle dei fratelli e delle sorelle nel cammino; rispondono a sé stessi e solo di sé si occupano e preoccupano? No, rispondono al sentire che li conduce dove è bene per i loro processi. Vanno dove sono, dove possono, dove non possono che essere.
Concludo: se l’umano costruisce, desidera anche preservare e perseverare. Se il sentire edifica, tutto è soggetto a trasformazione e nessuno deve promettere a qualcuno qualcosa che non sia già accaduto e in accadere.
Il nostro monachesimo è la consapevolezza dell’azione di un archetipo in noi, di quella forza che ci conduce incontro a noi stessi e all’unitarietà dell’essere e del vivere. E’ il monachesimo scritto nell’intimo di ogni vivente, consapevole o no che sia.

Immagine da: http://v.gd/6jPT1H


Saper stare nelle situazioni indipendentemente da ciò che producono in noi in quel momento

Qui trovate le interessantissime osservazioni di Roberto D’E. e di Silvano sulla loro esperienza dell’ultimo intensivo di formazione e contemplazione a Fonte Avellana.
E’ possibile vivere ore e giorni aldilà del giudizio e dell’aspettativa? Oltre la frustrazione? Oltre la fatica? Senza lasciarsi condizionare da ciò che nell’ambiente muta, si avvicenda, si genera?
E’ possibile risiedere così tanto nello stare, nella consapevolezza che la vita accade e lo fa secondo la sua intenzione che non ha bisogno di un nostro commento, di un ricamo, di un’aggiunta?
E’ possibile abitare un’officina esistenziale sapendo che ogni respiro ci trasformerà, anche se i polmoni soffrono nell’inalarlo?
E’ possibile sperimentare la vita come insegnante, l’altro come maestro, le situazioni come le mani che ci modellano facendoci argilla?
I nostri intensivi sono momenti di vita intensa, radicale e parlano all’interiore di ciascuno, lo provocano, lo scuotono, lo logorano, lo sostengono, lo accompagnano.
I nostri intensivi di formazione e contemplazione non sono e non danno consolazioni, sono anni luce lontani dal circo dello spirituale a consumo.
Potrei paragonarli alla vita di coppia,  a quella intensità, complicità, tensione esistenziale: se i partner, in una coppia, cercano solo il benessere e il piacere durano poco, la vita di coppia è un processo esistenziale di lungo corso e di intensa pregnanza.
La vita comunitaria, le giornate di un intensivo hanno la stessa natura profonda, la stessa pregnanza esistenziale: solo una persona che non ha compreso ciò che ha vissuto può dire:”Mi è piaciuto, non mi è piaciuto. Sono stato bene, sono stato male”.
Chi è davvero entrato nel ventre dell’intensivo ha visto se stesso, i suoi molti volti e non sempre si è sentito rassicurato; ha visto la gioia e la leggerezza, la pesantezza e il logoramento; ha visto la solitudine e la comunione dei sentite; ha visto la vita nella sua radicalità e ha imparato, ha dovuto imparare se voleva restare, ad andare oltre il giudizio e l’aspettativa, oltre il lamento, oltre il vittimismo, oltre tutto ciò che lo definisce come soggetto personale.
La natura degli intensivi è tale che il partecipante è portato passo passo, a volte in modo docile, altre in mezzo alle resistenze, ad andare oltre di sé, a dimenticarsi di sé.
C’è fatica? E’ un fatto. C’è leggerezza? E’ un fatto. C’è rifiuto? E’ un fatto. C’è fusione? E’ un fatto.
Chi in questo atteggiamento risiede sa che la propria vita è dentro ad un vortice di trasformazione della cui portata non può dire, ma avverte chiaramente che nulla può rimanere come è stato, ogni aspetto dell’essere proprio viene scarnificato, ricostruito, rimodulato, fatto nuovo dalle esperienze.


Lo sguardo parziale, la visione d’insieme: da ego ad amore

Più lo sguardo è ristretto, più l’orizzonte che ci riguarda è quello personale, più la difesa del nostro punto di vista è insistita, più ci muoviamo nel limitato spazio della nostra egoità.
Come si può comprendere quando la nostra identità si è fatta meno limitante?
Osservando l’ampiezza del nostro sguardo, del nostro interesse, del nostro slancio:
– quando cominciamo ad occuparci dell’altro da noi;
– quando cominciano ad interessarci i destini degli altri, persone o popoli che siano;
– quando in noi sorge la responsabilità consapevole delle nostre intenzioni, dei nostri pensieri, delle nostre azioni;
– quando cominciamo a considerare la ricaduta del nostro essere sull’altro da noi, sull’ambiente.
Quando incominciamo a comprendere cosa sia l’esperienza del “prendersi cura”, allora la nostra vita diviene testimonianza concreta di un sentire che si è ampliato, di un passo compiuto nella direzione dell’amore che si lascia alle spalle porzioni di egoità.

Immagine da: http://goo.gl/pou37B


 

L’importanza dei si e dei no ricordando che al centro c’è la possibilità di comprendere

Un’amica lamenta una parente che, pur non pagando l’affitto, al sette del mese ha già finito lo stipendio e bussa chiedendo soldi. La situazione è reiterata e per questo più faticosa.
Molti di noi hanno vissuto, o vivono, situazioni di questo genere e si sentono giustamente intrappolati.
Non voglio discutere di cosa vada fatto in simili situazioni, ma della sfida che si apre.
Sappiamo che troppi si creano nell’altro, a volte, un malcostume interiore; sappiamo che i no sono dolorosi e vanno motivati; ma per noi, la decisione da prendere che cosa comporta?
Che si dica sì o si dica no, dobbiamo necessariamente interrogarci sulla nostra motivazione, su quello che dal nostro punto di vista è il bene dell’altro, sul rapporto stesso con l’altro.
In questa interrogazione possiamo vedere i nostri egoismi, le nostre pretese e giudizi, le nostre arroganze e le nostre sudditanze: possiamo vedere un mondo, il nostro prima che quello dell’altro.
Alla fine, che noi si sia detto si o no, comunque avremo imparato dal processo vissuto.
Che cosa avremo imparato? Ad osservarci, ad interrogarci, a decentrare il punto di vista, a gestire la rabbia e la frustrazione, ad imporci, a piegarci.
Mille aspetti avremo visto di noi e dell’altro e, di certo, a processo terminato saremo diversi.
Sarà finalmente cambiata la situazione? Non necessariamente, dipende da molti fattori il principale dei quali è: abbiamo finito di apprendere da quella scena?

Immagine da:http://goo.gl/JhSif6


Un sogno lungo vent’anni

Avevo nella mente e nel sentire un gruppo di persone adulte nella comprensione, autonome nell’identità, mature nella relazione che, vivendo le loro vite e le loro sfide, fossero capaci di generare conoscenza di sé, consapevolezza, condivisione, atteggiamento contemplativo.
Avevo, e ho avuto lungo questo arco di tempo così impegnativo e vitale, nella mente e nel sentire la consapevolezza di una possibilità: che persone laiche, lontane dalle religioni e dalle appartenenze percorressero una via originale, semplice, in continua revisione e approfondimento, scoprendo e vivendo in sé la dimensione archetipa del monaco, di colui/ei che si carica il proprio essere sulle spalle e va incontro all’unità dell’essere e dell’esistere.
Ho avuto nella mente e nel sentire la possibilità di edificare una comunità nel sentire che fosse testimonianza visibile di un’altra vita, di un’altra declinazione dell’umano.
Tutto questo nel tempo ha preso una forma e oggi un organismo comincia ad avere una vita sua, sembra potersi alimentare di una forza propria, non indotta.
Il sognatore intravvede ora la possibilità di riposarsi dal sogno.
E’ stanco, il cammino è stato faticoso, i veli negli occhi dell’umano molti; alla fine del suo sogno una commozione lo pervade, lascia che la stanchezza possa fare il suo corso.

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