La coppia 5: l’autonomia

Il ritmo vicinanza/lontananza consolida i due nelle relative autonomie.
E’ vero che la coppia è un organismo con un suo respiro e una sua direzione esistenziale, ma è anche vero che i due sono cammini esistenziali differenti: dalle stesse scene estraggono insegnamenti differenti.
Se la coppia è il campo base, la vita di ciascuno dei due si sviluppa lungo i sentieri che salgono e scendono dal monte, ciascuno per il proprio sentiero, con i propri spazi aperti, le proprie boscaglie, le proprie fiere e le proprie sorgenti.
I due camminano e sperimentano lungo i loro personali sentieri e ritornano al campo base, il loro patto prevede il ritorno alla tenda.
La vita comune, se è sana, sviluppa l’autonomia, la capacità di esporsi e di osare dei suoi membri: l’una invita l’altro, e viceversa, a non sedersi, a non appiattirsi, ad andare incontro alle situazioni che nell’intimo vengono avvertite come importanti.
I due coltivano gli interessi comuni quanto quelli personali, sanno camminare insieme come allontanarsi per le loro, personali, esperienze.
L’allontanamento dal campo base all’inizio produce il dolore della separazione, ma questo è necessario e vitale: l’equilibrio non è una linea continua, è una sinusoide fatta di vicinanza e lontananza, di un venire e di un andare, di un esserci e di un mancare.
Se l’altro c’è sempre come può crescere la propria capacità di affrontare i mille volti del reale? Se viene meno la stampella, si cade?
L’altro non può, non deve esserci sempre: deve avere la sua vita, il suo sentiero e deve, a volte, mancarci affinché noi lo si possa scoprire nella funzione che svolge al nostro fianco; un rapporto è composto di due vite che si incontrano, non è un’entità fusionale.
Nell’intimità del campo base i due sedimentano ed elaborano i vissuti personali, si confermano e confortano a vicenda, lasciano emergere gli angoli più scuri del loro essere e iniziano a lavorarli.
La vita di una persona è una e non si può frammentare tra il dentro e il fuori la coppia, tra casa e lavoro, tra partner e amici: la vita è una perchè tutte le esperienze trasformano il sentire che è la matrice di tutti i fatti vissuti; è questa trasformazione continua che costituisce la persona, le sue relazioni, le sue sfide, il suo esserci.
La persona sperimenta dentro e fuori la coppia, a volte in modi che sembrano contraddittori e, a seconda degli ambienti in cui è collocata, affronta aspetti diversi di sé e del proprio non compreso.

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La coppia 4: la routine del quotidiano

La grande piallatrice. La convivenza dopo settimane o mesi conduce inevitabilmente all’esperienza della routine.
Per alcuni questa è rassicurante, per altri, i più, deprimente.
La mente/identità, per sua natura, ha bisogno di stimoli: la routine rende ogni aspetto del quotidiano uguale a se stesso.
L’altro che ci vive a fianco inizia a non essere visto più come colui o colei su cui è incernierato il nostro progetto d’esistenza, inizia ad apparire sbiadito nei suoi contorni, parte integrata nell’ambiente domestico incapace di produrre stimoli tali da porlo in rilievo.
Le sue manifestazioni ci appaiono come già note e mentre affiorano le etichettiamo come conosciute, ripetute, insistite, disturbanti.
Un caffè la prima volta è un’esperienza, alla trecentesima un fatto ovvio e non degno di nota; il sesso diventa una pappa riscaldata; la sclerata, una delle tante.
Ogni aspetto del quotidiano si appiattisce e si svuota di senso: noi, l’altro, gli accadimenti tutto sbiadisce e si appiattisce nel mare calmo della non rilevanza.
La routine è una delle più grandi sfide nella vita della coppia e, non di rado, porta a smarrire la consapevolezza delle ragioni stesse dello stare assieme.
In sé, come esperienza, appartiene alla fisiologia dell’identità e viene sperimentata in ogni ambito della vita, non solo nella coppia.
Da dove tre origine? Dal giudizio della mente sui fatti. Ogni fatto del quotidiano è etichettato, parametrato, archiviato: quando quel fatto si ripresenta nelle sue caratteristiche salienti non viene visto e vissuto in sé, ma viene richiamata dall’archivio la sua esperienza e la mente dice: “Lo conosco, già vissuto, non può produrre niente di rilevante!”
Quel giudizio toglie valore all’accadere, lo rende simile a tutti gli altri e crea il film sbiadito della routine.
E’ necessario vedere l’etichetta che la mente appone sui fatti e non abilitare oltre l’operazione; è necessario divenire consapevoli che la vita è fatta di piccoli fatti e se, ad uno ad uno, questi non vengono vissuti, la vita stessa non viene vissuta.
La routine ci svela uno dei meccanismi di fondo dell’identità, il suo proiettarsi nel passato o nel futuro alla ricerca di fattori eccitanti e significanti, rifuggendo dall’accadere del presente che, a priori, viene etichettato come non rilevante, tranne alcune eccezioni.
Questo conduce ad una inquietudine di fondo, alla frustrazione ed alla alienazione dalla propria vita: inizia l’inquieta ricerca dell’eccitante che porterà, il più delle volte, a farsi male.
Se la persona non comprende che la vita accade ora e mai più; che quel fatto è il primo e l’ultimo, l’unico che valga la pena di vivere; che la realtà non è quella contenuta nella mente ma quella che accade e che sollecita i sensi, l’emozione, il pensiero, il sentire proprio adesso: se questo non viene compreso la vita della coppia si immiserisce perchè la vita del singolo diviene vuota, viene da se stesso svuotata.
Non ci sono tecniche ed esercizietti, è necessario aprirsi su un dato evidente quanto banale: la mente con le sue aspettative e le sue pretese vela l’accadere della vita e la rende invisibile al nostro esperire.
Se siamo capaci di vedere il racconto della mente e da esso disconnettiamo l’attenzione, subito affiorerà ciò che è sempre stato lì: l’essere delle cose, dei fatti; il senso che essi portano, la bellezza intrinseca a ciascuno di essi, la pienezza del semplice gesto del respirare.

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La coppia 1: Le ragioni di un incontro

Iniziamo la pubblicazione di una serie di post sulla vita di coppia.

Sospinti da che cosa i due si incontrano?
Certamente perchè si piacciono: che cosa significa? Che hanno caratteristiche estetiche, temperamentali, culturali compatibili. Sufficientemente compatibili.
L’elenco delle ragioni pratiche, fisiche, psicologiche per cui i due si incontrano potrebbe essere lungo ma a noi non interessa approfondire, la tesi che vogliamo sostenere è un’altra.
I due si incontrano perchè solo sperimentando assieme possono conoscere se stessi e vivere le trasformazioni necessarie al loro sentire.
Nessuno si incontra per fortuna o sfortuna, nessuno incontra la persona non adatta: ciascuno incontra la persona che in modo più efficace le sarà collaboratrice, pungolo, motivo di svelamento e di trasformazione profonda in quella stagione della propria vita.
Anche quando il rapporto che poi si svilupperà sarà faticoso e pieno di conflitti, da quella fatica potrà essere estratto il necessario per il proprio cammino esistenziale.
So che non pochi rapporti sono non solo faticosi ma anche violenti, ed immagino che chi legge, a partire da queste esperienze, muova un’obiezione alla tesi che sostengo. Sarà un tema che affronteremo più avanti e di certo sarà stimolato dagli interventi.
Due persone, sospinte dalla forza dell’innamoramento, o da una affinità esistenziale – ricordo che non tutti si mettono assieme perchè innamorati – decidono di aprire la loro personale ed intima officina.
I mobili che acquistano, la casa, gli abiti, le mutande con quelle particolari caratteristiche, le lampade, le tende alle finestre, i biscotti della colazione, i programmi tv da guardare assieme, l’odore delle lenzuola, le mille abitudini e i mille riti, gli scontri e gli avvicinamenti, il perdersi e il ritrovarsi sono i componenti di questa officina.
I vestiti del giorno e il loro pigiami sono le loro tute: quando i due operai aprono gli occhi al giorno che inizia, aprono anche la porta a vetri della loro officina esistenziale. Quando, a notte più o meno tarda, scivolano nel sonno chiudono anche la porta della loro officina.
La vita di coppia è sviluppo e conoscenza di molteplici processi esistenziali. Messa così può sembrare poco romantica, forse ci piace pensare che la vita assieme sia una formidabile avventura eccitante, gratificante, profondamente fusionale. E’ un sogno che contiene in sé un brusco risveglio.
(Prossimo post: conoscersi)

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Fare spazio dentro di sé

Semplicemente osservando l’affollamento di emozioni e pensieri.
Basta osservare? No, se c’è identificazione con il contenuto dell’affollamento non succede niente.
E’ necessario aver compreso che le emozioni e i pensieri sono vento che va, non sono né noi, né la nostra esistenza.
Se si ritiene di essere quel pensiero, quello persiste; se ci riscalda quella emozione, quella permane.
Per fare spazio dentro di sé è necessario essere abbastanza stanchi di sé, perlomeno di quel sé che in modo piacevole o spiacevole occupa tutto lo spazio.
E’ facile stancarsi delle proprie pesantezze, ma delle cose piacevoli non ci si stanca e qui cade l’asino: bisogna lasciare andare tutto, senza distinzione.
Lasciar andare significa, osservare, essere consapevoli, non curarsi del vento che va, di ciò che attraversa i corpi dell’essere.
Da questo “non curarsi” sorge lo spazio, silenzi tra parola e parola, emozione ed emozione, azione ed azione.
Silenzi, spazi, stare non condizionato.

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Con passo leggero

Attraversare la realtà dei piccoli fatti quotidiano, degli incontri, delle relazioni come si fosse privi di peso, senza impatto.
Quanto impatta un’emozione forte, un groviglio di pensieri, un’opposizione?
Quanto è lieve e trasparente la persona che con la consistenza di un velo attraversa la realtà e da essa si fa attraversare?
La via del perdere è anche la possibilità, passo dopo passo, di perdere consistenza: si diviene fragili e vulnerabili ma, nel contempo, la consapevolezza di essere solo vita e nulla di distinto da essa apre all’esperienza sconfinata dell’essere.
L’essere non ha né forma né peso, non impatta: è tutta la realtà, non qualcosa di distinto da essa.

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Tornare incessantemente all’essenziale

Che cos’è l’essenziale? Ciò che ora la vita ci presenta privo di giudizio e di aspettativa.
Ciò che viene è riconosciuto come la nostra vita.
La mente sempre tenta di giudicarlo, di confrontarlo con altro e sempre lo lega al desiderio.
Vedere questo gioco, non alimentarlo, disidentificarsi.
Tornare al fatto, a ciò che accade.
Vedere le sensazioni, le emozioni e i pensieri che sorgono e lasciarli andare.
Quel fatto implica sempre un altro da noi, è portato da qualcuno: una persona, un animale, un evento meteorologico.
Ci accorgiamo di questo “altro”? O vediamo solo noi stessi, i nostri giudizi e ciò che ci aspettiamo?
Chi è, che vita ha, cosa sta simbolicamente narrando?
Questo altro ci svela perchè mostra la nostra distrazione, il nostro egocentrismo, la nostra diffidenza..
Torniamo incessantemente a ciò che la vita attimo dopo attimo ci presenta: in quel presente senza tempo comprendiamo chi siamo e veniamo trasformati; lì prende forma il senso del nostro esistere.

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Imparare a vivere il quotidiano

“Tratta il riso come fossero i tuoi occhi” diceva Dogen al cuoco del monastero zen.
Noi diremmo: “Tratta ogni momento della tua vita come l’unico che hai a disposizione e vivi ogni fatto senza proiettarlo sul futuro e senza radicarlo nel passato”.
Sabato 8 febbraio, nel contesto del gruppo di base del Sentiero, Roberto affronterà i temi dell’imparare a vivere ciò che attimo dopo attimo si presenta alla nostra esperienza scendendo nella profondità di esso e lasciandosi fecondare.
Da questa disposizione interiore rivolta a tutte le cose piccole, minute e insignificanti germoglia il senso del nostro vivere.

All’Eremo dal silenzio, San Costanzo.
Inizio ore 16,20 puntuali.
Conclusione ore 19.

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Qual’è la natura profonda di una giornata?

Una sequenza di fatti che apre sull’esperienza del “quel che è”.
Una intenzione è un fatto.
Un pensiero è un fatto.
Un’emozione è un fatto.
Un’azione è un fatto.
I fatti non vanno vissuti nella loro conseguenzialità come se fossero uno la prosecuzione dell’altro: vanno vissuti come se non fossero preceduti da niente e non dessero luogo a niente.
Sospesi nel senza tempo perchè non connessi ad altro che al loro accadere.
La consapevolezza di fatti così vissuti conduce la persona nella natura profonda di ogni fatto: ciò che viene vissuto non è positivo o negativo, costruttivo o distruttivo, attraente o repellente,
è semplicemente “quel che è”.
L’esperienza del “quel che è” apre orizzonti di senso difficilmente immaginabili da chi vive dentro la catena dei fatti e degli eventi.


Conversazioni sul quotidiano: la generosità.

Iniziamo la pubblicazione di una serie di conversazioni tra Anna Fata e Roberto Olivieri riguardanti i temi che nel quotidiano si presentano all’esperienza e plasmano l’interiore.

[Anna] Amo osservare, me stessa, gli altri, il mondo. E m’interrogo. E spesso sono più le domande che le risposte, ma non me ne curo, sono e restano capitoli sempre aperti, in lavorazione, cantieri senza fine a cui ogni tanto si aggiunge o si toglie un pezzo.
Stasera tornavamo in auto con mio padre. Un extra comunitario lo aveva aiutato a portare in auto un grosso e pesante scatolone, in cambio lui gli ha lasciato una mancia. Mentre guidava, ad un certo punto, ha rievocato la scena con questo commento: “Se un giorno diventiamo poveri a Quello lassù ricorderò che la mia parte a suo tempo l’ho data e che ora a diritto mi spetta di ricevere”.
Sorridevo, tra me e me, e insieme abbiamo condiviso la risata. Ma l’amarezza di un rapporto commerciale che sembra permeare tutta la nostra esistenza è durata per ore, e ancora me la sento addosso.
Forse sono un’illusa, ma ancora vorrei poter credere che esistano in questo mondo brandelli anche solo estemporanei e accidentali di generosità. Ma il dubbio s’insinua e mi porta a chiedere, in fondo, se ha veramente un senso utilizzare tale espressione.

[Roberto] La mente di tuo padre ha fatto quella considerazione a posteriori ma nel momento in cui dava la mancia quale era la sua intenzione?
Ha dato perché doveva? Per ricevere la divina ricompensa? Oppure ha dato semplicemente perché così gli è venuto da fare?
Non puoi sapere che cosa ha mosso tuo padre, ma puoi sapere che cosa muove te nelle mille occasioni che la vita ti presenta. Il tuo dare è condizionato dal tuo bisogno, dal dovere, da cosa?
Per parte mia ho scoperto che ci sono due livelli che operano in me e lo fanno simultaneamente: c’è un livello di fondo, una grande direttrice che ha dato e dà alla mia vita un’impronta fortemente tesa al bene comune, al bene dell’altro e c’è una sovrapposizione più superficiale che valuta, considera, pondera.
Questa parte più superficiale è quella che mi rende realista nell’andare nel mondo, che mi porta all’apertura, all’offrirmi ma con discernimento.
In questa parte confluiscono anche le resistenze, gli egoismi spiccioli, le paure..

[Anna] Per chiudere il cerchio, se devo andare a vedere, un discorso sulla generosità ha ben poco senso. Chi o cosa s’interroga sul proprio e altrui essere generoso se non l’identità? Chi ha bisogno di sentirsi gratificato da questa bella etichetta di sé o sentirsi accolto dal mondo buono e rassicurante se non l’ego?
E, allora, quando c’è il momento del dare/ricevere – già, perché in ultima analisi sono la stessa cosa, solo che nel solito nostro dualismo li vediamo separati, esattamente con noi stessi e gli altri – non c’è altro se non questa dimensione interiore.
Tutto il resto è frutto della mente: la fantasia del paradiso futuro, il senso di colpa per non avere concesso abbastanza, il ripensamento di buoni propositi per il futuro, e chi più ne ha, più ne metta …

[Roberto] Certamente è l’identità che si interroga ma essa è lo specchio della coscienza e finchè c’è la domanda: “Sono abbastanza generoso?” significa che la coscienza non ha risolto la questione. Quando l’ha risolta non c’è più domanda.
Personalmente credo che finchè c’è vita c’è quella domanda e tutti i giorni e in diverse situazioni mi interroga.
Sarebbe interessante analizzare la questione della generosità non come fatto compiuto ma come processo..

[Anna] Generosità come processo .. mi fa venire in mente per associazione che alla base della generosità ci debba essere una meta, un obiettivo di fondo..

[Roberto] Nel divenire, nelle nostre vite immerse nel tempo tutto è in successione.
La generosità non ha un fine, essa muta di pari passo con le nostre comprensioni.
La condizione dell’egoista è, potenzialmente, la più evolutiva: egli ha un ampio spettro di generosità sul quale addestrarsi..
Noi guardiamo le persone e diciamo:”Quello mi sembra un po’ egoista, quello invece ha una bella generosità!”, dovremmo considerare che entrambi stanno imparando e quindi uscire dalla morsa egoismo/generosità per guardare al processo; in questo modo lasciamo morire il giudizio e ci limitiamo a prendere atto che ognuno opera in relazione al proprio sentire, quindi a ciò che gli è possibile.
Essere generosi non è un merito; essere egoisti non è una colpa, è semplicemente la realtà di sentire differenti.

[Anna] Poi, magari, arriva un giorno in cui non notiamo più tutto ciò, perdiamo d’interesse relativamente a questi aspetti, soprattutto non soppesiamo più né il nostro, né l’altrui dare-prendere, ma iniziamo, semplicemente, a darci ..
A volte ci arriviamo senza tanto dolore, in modo quasi fisiologico, altre volte è la Vita che togliendoci tante possibilità materiali ci conduce a tale nuova dimensione.


Immagine tratta da: http://www.immaginidivertenti.org/tag/donare/

 

Nel quotidiano ancorarsi all’essenziale

Che cosa è essenziale nel quotidiano? Un fatto piuttosto che un altro?
No, l’essenziale è non scegliere tra fatto e fatto compilando così una graduatoria con in cima ciò che riteniamo più importante (fatte salve le situazioni che hanno una scadenza o che coinvolgono altri).
L’essenziale è considerare tutti i fatti importanti, tutti meritevoli della nostra attenzione, consapevolezza, dedizione.
Che cosa vuol dire essere dediti ad un fatto che accade? Significa riconoscerlo come la nostra vita e realizzare che solo nella consapevolezza e nella presenza quel fatto diverrà portatore di senso, di soddisfazione e di realizzazione.
Fino a quando stiliamo graduatorie siamo sempre alla ricerca del fatto eclatante, di quello importante che magari ci cambierà la vita: quando la smettiamo con questo comportamento e apriamo gli occhi su ciò che abbiamo davanti scopriamo che ogni cosa, ogni evento – anche il più irrilevante – è vita che si presenta, ci interroga, ci trasforma e ci libera.
Da cosa ci libera? Da noi stessi, dalla nostra pretesa del rilevante, del significante, del determinante.
Sarà allora una noia mortale non essendoci più qualcosa che ci eccita e ci galvanizza?
Questo è il timore della mente/identità ma la realtà è molto diversa: più usciamo dalle logiche del desiderio più la nostra vita diviene piena di senso e di pace.

L’immagine è tratta da: http://cultura.panorama.it/arte-idee/grafici-mobili-editore-corraini-salone-del-mobile