Dōgen, Busshō: oltre la conoscenza intellettiva 10 [busshō10]

[Sommario AI] Durante un viaggio in Cina nel 1223, Dōgen vide dipinti dei 33 patriarchi Zen e chiese a un monaco chi fosse raffigurato in un ritratto particolare; il monaco rispose che era Nagarjuna, ma la sua spiegazione fu considerata insoddisfacente da Dōgen.

Dōgen cercò di discutere il significato del ritratto con altri monaci, incluso l’abate, ma nessuno comprese la sua prospettiva, evidenziando una mancanza di comprensione profonda della dottrina Zen.
Dōgen concluse che rappresentazioni convenzionali di concetti trascendenti, come quelli di Nagarjuna, sono inadeguate e che la vera comprensione richiede un’indagine personale e non si basa su immagini preesistenti.
Dōgen critica l’approccio passivo di molti monaci che si limitano a ripetere dottrine senza una comprensione profonda, paragonandoli a chi si accontenta di un’immagine superficiale invece di ricercare la vera essenza.
L’autore sottolinea il pericolo di confondere la conoscenza intellettuale con la vera comprensione della natura di Buddha, avvertendo contro una comprensione superficiale che impedisce il raggiungimento della conoscenza profonda.
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[Traduzione Forzani-Mazzocchi] Io, lungo il mio pellegrinare, mi sono recato in Cina. Verso l’autunno del 1223, per la prima volta sono giunto al monastero Zen Aikuozankori. Sulla parete del corridoio occidentale ho visto raffigurate le varie effigi dei 33 patriarchi indiani e cinesi. Subito non compresi; in seguito, durante il periodo di ritiro estivo dell’anno 1225, tornai lì ancora una volta e, mentre camminavo per il corridoio con il monaco incaricato di ricevere gli ospiti, di nome Joken e originario di Szechwan, gli chiesi: «Questo ritratto di chi è effige?». E lui: «È la forma di luna tonda dell’essere corpo di Nagarjuna». Così spiegava, ma la sua faccia era come senza narici* e la sua voce come senza parola.[1] Io gli dissi: «Ah, questo è proprio come il moci dipinto!».
Allora lui proruppe in una gran risata, ma quella risata era come una spada che non taglia; e non potè strappare il ritratto del moci dipinto. [/F-M]

[Commento di Jiso Forzani] Al termine del lungo episodio di Nagarjuna, Doghen cita un episodio della sua esperienza: è questo l’unico accenno personale in tutto il testo. In uno dei monasteri in cui Doghen si è recato durante la sua permanenza in Cina, viene ricevuto e introdotto dal monaco incaricato dell’accoglienza (shika, in giapponese), il quale, come è consuetudine, fa fare al nuovo venuto un giro dei principali luoghi del monastero. Sulla parete di un corridoio, ci sono 33 dipinti che rappresentano i patriarchi indiani e cinesi a partire da Mahakasyapa, discepolo di Sakyamuni Budda, fino al sesto patriarca cinese Hui Neng.

Evidentemente uno dei dipinti rappresentava un personaggio soffuso di luce, avvolto in un’aureola rotonda: Doghen chiede chi sia, e il monaco risponde: «È la forma di luna tonda dell’essere corpo di Nagarjuna». Il monaco parla senza rendersi conto di quello che dice, seguendo l’abitudine. A Doghen viene spontaneo esclamare: «Dar forma di dipinto in questo modo all’essenza dell’incarnazione che è il fulcro della testimonianza di Nagarjuna è come il koan del moci dipinto». Questo è un riferimento a un famoso koan dello Zen cinese, basato sull’espressione di un antico maestro: «Un moci dipinto non può soddisfare la fame».

Doghen invita così il monaco a riflettere sul vero significato della forma di luna tonda dell’essere corpo espresso da Nagarjuna, senza accontentarsi di immagini convenzionali come quella di quel dipinto. Ma il monaco non ha nessuna voglia di uscire dalla routine in cui si sente al sicuro. Ride, a quella che giudica una battuta di spirito del giovane visitatore straniero, ma alla sua risata manca spontaneità e vigore. [/Commento]

[Traduzione Forzani-Mazzocchi] Successivamente, mentre l’incaricato degli ospiti e io ci recavamo al sacrario e nei vari luoghi eminenti del monastero, più volte ho risollevato la questione, ma neppure il benché minimo dubbio sembrava sfiorarlo. Dei monaci spontaneamente intervennero a dire la loro; se ne radunarono molti ma non furono in grado di centrare il punto.

Io dissi: «Provo a chiederlo all’abate». In quel periodo era abate il monaco Daiko. L’incaricato disse: «Lui non ha narici[1], non è in grado di capire. In che modo potrebbe saperlo?». Perciò non lo chiesi al vecchio Daiko. Così mi aveva detto, però nemmeno lui aveva centrato il punto.
Anche fra i sacchi di pelle che fanno domande e danno spiegazioni mancano coloro che sono in grado di indicare la via. Fra gli abati succedutisi prima e dopo, vedendo quell’immagine, a nessuno è venuto il dubbio, né si è posto il problema di correggerlo. Allora, tutte le cose che non si è in grado di dipingere, non vanno dipinte per nulla. Se si deve dipingere, bisogna farlo in modo semplice e diretto. Perciò, la forma della luna tonda dell’essere corpo, da sempre è da non dipingere. [/F-M]

[Commento di Jiso Forzani] Doghen provoca tutti i monaci a chiedersi in prima persona cosa significa la forma di luna tonda dell’essere corpo, senza accontentarsi di definizioni, di risposte preconfezionate da altri: ma non trova nessuno disposto a questa indagine, come se quel problema non fosse il problema personale di ogni persona della via, ma una questione chiusa, ormai risolta dalla tradizione. Doghen conclude allora che è meglio non dipingere immagini convenzionali di ciò che trascende ogni convenzione. Questa non è una crociata iconoclasta. Le parole di Doghen sono un invito a resistere alla rassicurante tentazione di risolvere il problema religioso, il problema del proprio rapporto con la vita e con il senso della vita, appoggiandosi su immagini e su risposte codificate: questo è la negazione della vera ricerca che illumina la propria vita. [/Commento]

[Traduzione Forzani-Mazzocchi] Se uno non si libera dell’opinione che la natura autentica più o meno coincida con la comprensione e l’intuizione del momento, sia che percorra la via di natura autentica ente o che percorra la via di natura autentica niente, è come uno che ha smarrito il bandolo del filo conduttore. Di conseguenza si indebolisce anche la sua coscienza del dovere della testimonianza. Sappi che questa dispersione e indolenza è la conseguenza del processo di corruzione in atto. [/F-M]

[Tollini traduce] Insomma, poiché non ci si risveglia dalla visione [erronea] della natura-di-buddha ritenuta l’attuale conoscenza intellettiva e della coscienza,279 [così] si manca l’entrata alla conoscenza profonda sia dell’espressione “natura-di-buddha”, sia dell’espressione “non natura-di-buddha”.

279 In originale ryochi nenkaku. Waddell, N. e Abe M., op. cit., 1976, p. 102, rende con “perceptions and discriminations”, mentre Nishijima, G.W. e Cross C., op. cit., p. 21, con “thinking, sensing, mindfullness, and realization” (pensiero, percezione, consapevolezza e realizzazione, ndr).
Mizuno, op. cit., p. 113, rende con “sensi e giudizio discriminante”. Grosnick, op. cit., p. 301, traduce: “present deliberations and conceptions” (deliberazioni e concezioni attuali, ndr).
Qui Dôgen intende che è erroneo considerare la natura-di-buddha come la conoscenza intellettiva e la coscienza che ha l’uomo ordinario. [/T]

[Traduzione Forzani-Mazzocchi] Fra i capi delle varie scuole, nessuna esclusa, c’è persino chi è arrivato alla fine senza aver testimoniato la natura autentica una sola volta nella vita. Confabulano che alla congrega degli uditori dell’insegnamento spetta discutere circa la natura autentica, mentre ai discepoli della via Zen si confà il sedere in silenzio. Che cricca! Che accolita di bestie! La chiamerei accozzaglia di demoni, che adulterano e sporcano lungo la via del mio signore Budda. Forse che nella via di Budda il che cosa è il fare gli uditori dell’insegnamento? Forse che nella via di Budda il che cosa è entrare nel silenzio? Sappi, in verità, che né il fare gli uditori, né l’entrare nel silenzio è il che cosa nella via di Budda. [/F-M]

[Commento di Jiso Forzani] Ciò che conta non è aderire a una corrente di pensiero religioso, ma mangiare ora con la propria bocca il moci che nutre: non un rapporto di comodo con la fede, ma esperienza di vita vissuta che diviene testimonianza e nutrimento per altri. Eppure in religione c’è chi passa tutta la vita a fare il pastore o il maestro limitandosi a ripetere ciò che altri ha detto e sperimentato. Dividere gli ambiti, affermando che ad alcuni tocca la parte intellettuale, lo studio che diviene poi parola, mentre ad altri tocca la parte pratica, la pratica religiosa avvolta di silenzio, è segno che si ignora completamente la natura del cammino religioso, e che lo si contamina con i propri pregiudizi. La via religiosa è unica e unitaria: in essa l’ascolto dell’insegnamento è il metterlo in pratica, e il metterlo in pratica è ascolto e testimonianza: camminare sulla via è ascoltare l’insegnamento, metterlo in pratica, realizzarlo, testimoniarlo, e questo è un tutt’uno, non momenti separati e separabili. Se così non fosse ci sarebbe chi è avanti e chi è indietro, chi è dotato e chi è inetto, chi è meritorio e chi non lo è. Ma nella via percorsa con cuore gratuito e sincero, non hanno senso queste distinzioni.           

Con il capitolo 10 si conclude una prima esposizione della problematica della natura autentica: a partire dal successivo capitolo, Doghen ricomincia da capo l’analisi, servendosi di altri riferimenti. [/Commento]

* Espressione per indicare mancanza di comprensione profonda, secondo Tollini.

[1] L’antica tradizione orientale ritiene che il naso sia il primo organo che si forma nel feto: come tale svolge la funzione di simbolo della persona. L’ideogramma di io, letto shi in cinese e watakushi in giapponese, è raffigurato dalla mano che addita il naso.

Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.

Fonte: Aldo Tollini



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