Saper stare nelle situazioni indipendentemente da ciò che producono in noi in quel momento

Qui trovate le interessantissime osservazioni di Roberto D’E. e di Silvano sulla loro esperienza dell’ultimo intensivo di formazione e contemplazione a Fonte Avellana.
E’ possibile vivere ore e giorni aldilà del giudizio e dell’aspettativa? Oltre la frustrazione? Oltre la fatica? Senza lasciarsi condizionare da ciò che nell’ambiente muta, si avvicenda, si genera?
E’ possibile risiedere così tanto nello stare, nella consapevolezza che la vita accade e lo fa secondo la sua intenzione che non ha bisogno di un nostro commento, di un ricamo, di un’aggiunta?
E’ possibile abitare un’officina esistenziale sapendo che ogni respiro ci trasformerà, anche se i polmoni soffrono nell’inalarlo?
E’ possibile sperimentare la vita come insegnante, l’altro come maestro, le situazioni come le mani che ci modellano facendoci argilla?
I nostri intensivi sono momenti di vita intensa, radicale e parlano all’interiore di ciascuno, lo provocano, lo scuotono, lo logorano, lo sostengono, lo accompagnano.
I nostri intensivi di formazione e contemplazione non sono e non danno consolazioni, sono anni luce lontani dal circo dello spirituale a consumo.
Potrei paragonarli alla vita di coppia,  a quella intensità, complicità, tensione esistenziale: se i partner, in una coppia, cercano solo il benessere e il piacere durano poco, la vita di coppia è un processo esistenziale di lungo corso e di intensa pregnanza.
La vita comunitaria, le giornate di un intensivo hanno la stessa natura profonda, la stessa pregnanza esistenziale: solo una persona che non ha compreso ciò che ha vissuto può dire:”Mi è piaciuto, non mi è piaciuto. Sono stato bene, sono stato male”.
Chi è davvero entrato nel ventre dell’intensivo ha visto se stesso, i suoi molti volti e non sempre si è sentito rassicurato; ha visto la gioia e la leggerezza, la pesantezza e il logoramento; ha visto la solitudine e la comunione dei sentite; ha visto la vita nella sua radicalità e ha imparato, ha dovuto imparare se voleva restare, ad andare oltre il giudizio e l’aspettativa, oltre il lamento, oltre il vittimismo, oltre tutto ciò che lo definisce come soggetto personale.
La natura degli intensivi è tale che il partecipante è portato passo passo, a volte in modo docile, altre in mezzo alle resistenze, ad andare oltre di sé, a dimenticarsi di sé.
C’è fatica? E’ un fatto. C’è leggerezza? E’ un fatto. C’è rifiuto? E’ un fatto. C’è fusione? E’ un fatto.
Chi in questo atteggiamento risiede sa che la propria vita è dentro ad un vortice di trasformazione della cui portata non può dire, ma avverte chiaramente che nulla può rimanere come è stato, ogni aspetto dell’essere proprio viene scarnificato, ricostruito, rimodulato, fatto nuovo dalle esperienze.


Quando siamo persi a noi stessi

Molte zone delle Marche sono sott’acqua, molte persone hanno perduto molto, alcune la vita.
Ci sono responsabilità precise nel campo della programmazione urbanistica e ci sono responsabilità più generali, non imputabili ai soli cittadini marchigiani, quelle relative al cambiamento climatico.
Parlavo ieri mattina, dopo aver spalato per ore fango, con un terzista – un imprenditore che lavora in campagna per conto degli agricoltori – e convenivamo che nessuno è pronto a ciò che il cambiamento climatico comporta: non gli agricoltori, non gli amministratori, non i cittadini in genere: sembra che i nostri occhi non riescano a vedere l’evidente, a coglierne la portata e a indurci a reagire con prontezza e con la radicalità necessaria.
Osservo con molta attenzione i fatti del mondo, ieri le scene all’Olimpico di Roma, l’intervista a Di Battista del TG3 (di cui scrivo in questo post), i toni di una campagna elettorale irrealistica, pura propaganda di imbonitori di una massa impaurita.
Tutte le volte che l’umano è in preda alla paura e reagisce a questa con l’aggressività, produce mostri.
Quando siamo persi a noi stessi dovremmo evitare di accompagnarci ad altri altrettanto persi a sé stessi: dovremmo sederci e respirare; entrare in una libreria come quella della foto e sfogliare qualche libro che parli dell’essenziale; dovremmo non alimentare in noi ciò che ci oscura lo sguardo del sentire.
Dovremmo, ma a volte, guardando il mondo, mi coglie lo sconforto.

Immagine da: http://goo.gl/mZfAJk


 

Di cosa ci pentiamo o ci pentiremo

Rivolgendosi ai mafiosi il Papa ha detto: “Convertitevi per non finire all’inferno, è quello che vi aspetta se continuate su questa strada”.
Non voglio discutere della nozione di inferno che ancora trova spazio nella visione cattolica.
Per chi scrive il problema è di natura molto diversa: in questa vita, coloro che hanno accesso al senso di colpa lì trovano il loro inferno; nella vita dopo la morte tutte le tradizioni riconoscono che la persona si trova a rivisitare la vita trascorsa e a soffrire per il male inferto e l’egoismo provato.
In questa vita coloro che praticano la sopraffazione, l’egoismo, la violenza, l’assassinio, lo stupro si confrontano con la propria coscienza, se questa ha compreso il limite di quelle azioni: ma se non lo ha compreso?
Abbiamo la bizzarra idea che la coscienza sia “Dio nell’uomo” quando invece non è che uno dei corpi di quest’ultimo, una delle sue dimensioni (come lo sono la mente, l’emozione o il corpo fisico), per di più in evoluzione e strutturazione continua.
E’ vero che la coscienza guida l’operato umano, è anche vero che se non ha compreso determinati principi e valori procede per tentativi, impara attraverso le esperienze, sbagliando diremmo nel linguaggio comune.
Una coscienza che non ha compreso che non si ruba e non si uccide, permetterà che il suo veicolo, la persona, coltivi il furto e l’assassinio finché, di esperienza in esperienza non acquisirà i dati, le informazioni, le comprensioni per cambiare atteggiamento.
Chi ascolterà l’appello del Papa? Quei mafiosi la cui coscienza ha già compreso che certe azioni non sono legittime, che è pronta al cambio di vita ma che, per una resistenza dell’identità al cambiamento, ancora persevera.

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