Il processo di appropriazione

Affermare che tutta la realtà mi riguarda non è come dire che tutto è mio.
Tutta la realtà mi svela e riflette i miei processi interiori, quindi mi riguarda; nello stesso tempo, tutta la realtà non è mia, non mi appartiene, è una sequenza di fatti che la mia interpretazione unisce conferendogli il senso a me funzionale.
La realtà mi parla, ma non mi appartiene: ahimè, ci comportiamo come se la realtà fosse cosa nostra e invece mai lo è.
La realtà è fatto che accade e che sia generata dal nostro sentire, non la rende nostra.
Sembra un assurdo: come, è generata dal mio sentire e non è mia?
Il problema è in quel pronome possessivo.
Fino ad un certo punto del nostro cammino tutto è nostro; da un certo punto in poi prendiamo invece le distanze da quel processo di appropriazione e iniziamo a considerare i fatti nei quali siamo immersi come fatti.

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Quando vediamo l’altro

In assenza di mente l’altro compare, solo allora lo vediamo per quello che è.
Prima, in presenza di mente, non abbiamo visto lui, ma il nostro racconto su di lui.
Quando la mente tace, l’altro compare e noi non possiamo dire di conoscerlo allora, perché quella è una pretesa della mente: in assenza di mente non c’è conoscere o non conoscere, c’è solo la realtà.

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La famiglia, un’officina esistenziale

Puntuali ritornano.
La famiglia naturale e le altre, definite da loro ideologiche, che minerebbero quella naturale. Perché la diversità dell’altro, e il suo avere gli stessi miei diritti dovrebbe essere per me un problema, la mia mente limitata non lo comprende.
Gli altri dicono che è l’amore che crea la famiglia e quindi dove c’è amore, c’è famiglia: condivisibile, ma staremmo un po’ più bassi e diremmo che dove c’è affetto e rispetto, c’è famiglia.
Perché, la famiglia cos’è?

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