Quella interpretazione

Quel bambino, quella interpretazione di noi stessi che chiamiamo bambino, e che oggi osserviamo come un dato di realtà, sappiamo che domani sarà diverso, come oggi è diverso da ieri.
Per quanto io rimanga legato ai miei paradigmi questi mutano, per quanto io resista, la vita non si cura della mia resistenza.
La vita accade e quando io non interpreto più il suo accadere alla luce di un qualche paradigma, quando non interpreto più me come altro da essa, nemmeno come osservatore, scompare non solo il bambino ma, inesorabilmente, scompaio anche io, essendo io niente altro che una interpretazione della realtà.

L’interpretazione di sé e dell’altro

“Ecco perchè vi diciamo che l’unica interpretazione possibile, alla fin fine, è quella che ognuno fa di se stesso; ed ecco anche perchè vi diciamo così spesso che è difficile poter veramente comprendere gli altri; perchè ogni volta che vi mettete a cercare di comprendere gli altri comprendete qualche aspetto che vi ha colpito, quindi che a voi interessa, ma non comprendete l’altro nella sua totalità; comprendete soltanto quelle che sono le vostre spinte nell’interpretare un certo aspetto dell’altro.”
Tratto da “Sfumature di sentire”, pag.170, Cerchio Ifior

A chi a occhi per vedere

Ho visto “La fabbrica di cioccolato”.
Ad un certo punto un bambino afferma: “Ma questo non ha senso!”
E l’altro bambino: “Ma il cioccolato non deve avere un senso!”
La vita del cioccolataio era un gesto puramente creativo.
Quattro dei cinque bambini sono metafora del mondo ingordo ed arrogante;
il quinto è curioso, attento, presente all’essenziale della vita, l’unico essenziale che veramente conta:
il gesto che crea, il gesto gratuito, il gesto senza scopo, pura tenerezza, puro gioco.
Il quinto bambino viene assorbito nel mondo magico del cioccolataio,
è metafora della vita vera oltre le fauci dell’appetito egoico.
Mentre guardavo il film ho capito il senso di una scena vissuta nel pomeriggio:
una conversazione con una persona in merito ad alcuni aspetti della nostra esperienza.
Nelle ore seguenti a quel colloquio era cresciuto in me un senso di disagio,
un senso di sbagliato, dove lo sbagliato ero io, naturalmente.
Stavo guardando questa cosa per comprenderla.
Poi abbiamo visto il film ed è diventato più chiaro.
Noi viviamo qui, nell’eremo, e questo è veramente un mondo a sé:
un mondo interiore privo dei parametri del “mondo”, costituito di una quotidianità,
di una piccolezza, di una insignificanza che, chi non la vive, difficilmente può comprendere.
Essenzialmente noi viviamo il “mondo” quando esso viene qui, nella forma di persone che capitano
per la nostra attività, o nella forma di notizie attraverso la televisione.
Ma noi siamo dentro la nostra piccola riserva, dentro questo spazio esistenziale
e quando il “mondo” viene è solo un piccolo tassello
in un sistema molto più grande che è il nostro quotidiano.
Quando noi usciamo di qui e andiamo nel mondo siamo noi il tassello
in un mondo molto grande che pulsa secondo un sentire altro dal nostro,
con altre priorità, con altri occhi.
Quando noi usciamo di qui siamo sperduti e smarriti come penso siano sperdute e smarrite
quelle balene o quei capodogli che di tanto in tanto, sempre troppo spesso, si spiaggiano.
Stanno lì, con i loro grandi corpi, fuori dal loro ambiente, al confine tra i mondi
e vivono il senso di una perdita irrimediabile.
Quando noi andiamo nel mondo viviamo il senso di questa perdita irrimediabile:
non la nostra, non siamo noi che perdiamo qualcosa.
Quando andiamo nel mondo si palesa ai nostri occhi la dimensione di quanto il mondo
sia perduto a sé stesso, di quanto sia lontano dalle poche cose che hanno importanza nella vita,
di quanto sia ammalato di niente.
Per noi l’esperienza del mondo è l’esperienza del niente.
Abbiamo paura e siamo fragili, questa vita ci rende estremamente fragili.
Qui, nella trascuranza, nella insignificanza, nella routine senza scampo,
ogni respiro, ogni movimento interiore è vita che canta se stessa.
Qui, osserviamo la vita accadere, o meglio, si rinnova il miracolo
di essere la vita che accade perdendo ogni definizione di sé.
Qui accadiamo con la vita che accade, non altro da essa, vita che accade.
Quando incontriamo il mondo fuori di qui, sul terreno del mondo,
è come un precipitare nelle sue viscere: sorge uno spavento e un ritrarsi per tornare a respirare;
allora, nel ritorno, ci sembra che quel grande corpo spiaggiato possa tornare
a riprendere il mare e fare ritorno a casa sua.
Dove è casa sua?
Dove la vita accade.
E dove accade la vita?
Dove sei consapevole del suo accadere.

In merito allo stare

Quel semplice stare di cui tanto spesso parliamo e che è stato il filo conduttore della meditazione guidata conclusiva del secondo gruppo di approfondimento di domenica 11.10, può produrre una inquietudine nella mente: la persona sente che quello “stare” entra in conflitto e minaccia il suo bisogno di divenire una personalità compiuta ed in piena espressione.
Che la mente, la personalità, si inquieti è nelle cose, avverte questo come minaccia.
Il nostro tentativo è di realizzare, nello stesso tempo, la piena manifestazione di sé e la piena trascendenza.
Come è possibile un simile paradosso?
In ogni cosa che l’uomo compie, sente, pensa si manifesta ciò che è, la visione che ha di sé: esprime quella che chiamiamo la sua personalità. Ma se scendiamo nella profondità di ogni aspetto del suo fare, sentire, pensare entriamo non più nella espressione di sé, ma nella semplice contemplazione di ciò che è.
In altri termini: se muovo una mano questo gesto mi esprime;  se osservo dal punto zero quel movimento, questo diventa soltanto un movimento della mano, non è più ilmio gesto.
Cambiando il punto di vista e l’identificazione, viviamo nello stesso tempo le due situazioni per noi ugualmente importanti.