La gestione delle emozioni e dei pensieri

Sorgono nell’interiore stati e pensieri, a volte sollecitati da situazioni, altre volte per loro proprio moto.
Indipendentemente dalla ragione che ne determina il sorgere, la prima domanda da porsi è: di cosa mi parla questo stato?
Di cosa è simbolo, quale aspetto di me preme per essere osservato e compreso più profondamente?
Una volta affrontata questa domanda e avendo trovato una qualche risposta, se questa è stata incerta e non risolutiva, lo stato tornerà e noi potremo di nuovo affrontarlo: ora, quel che preme, è che non ci blocchiamo nell’indagine, nell’analisi, nel rimuginio, nell’allevare lo stato emotivo lasciandoci pervadere dai suoi umori.
Qui sorge un problema: la nostra identità, la percezione che abbiamo di noi, dice che quello stato è noi, ci costituisce e le rimane innaturale non coltivarlo, non alimentarlo.

continua..

Tra sentire e condizionamento

Dice Antonella: “La vera obbedienza non è verso gli altri ma verso la propria coscienza”.
Questa frase mi fa pensare: obbedisco sempre alla mia coscienza o a volte, rimanendo succube dell’identificazione, finisco per obbedire all’altro?
E’ poi quel senso di insoddisfazione che mi fa capire di aver obbedito all’altro..
Cosa è bene per me? In questa situazione, mentre l’altro dice e si manifesta in un certo modo, io mi ascolto?
Oppure opera in me quell’automatismo che mi porta ad essere stretto nella morsa accettazione/rifiuto, adeguatezza/inadeguatezza?
Sono consapevole di essere stretto in quella morsa? Perché se sono nella morsa e non sono consapevole di esservi, non posso disconnettere il condizionamento e se non lo disconnetto non può sorgere alcun ascolto.

continua..

Depressione e passaggi esistenziali

Dice Marco in riferimento al post di ieri sull’accidia: Non avevo mai pensato all’accidia come lutto della mente. Da sempre vivo momenti di svuotamento di senso ma faccio fatica a metterli in relazione con i processi di disidentificazione profondi di cui parli, dato che erano presenti prima che conoscessi la disconnessione e la disidentifcazione. Parliamo forse di due cose diverse?
La perdita di senso, il venire meno dell’interesse a vivere, l’appassire di quella forza propulsiva che sorge dall’identificazione con i processi ed il quotidiano, tutta quella fenomenologia che comunemente è definita condizione depressiva, o semplicemente depressione, di cosa parlano?
Gli stati della psiche e del corpo sono l’ultima manifestazione di un conflitto più interno che non trova soluzione; in gioco c’è, normalmente, il rapporto con noi stessi, con gli altri, con il lavoro: lì dovrebbe succedere qualcosa, dovrebbe cambiare un atteggiamento, un orientamento, una disposizione, una intenzione e invece non cambia.

continua..

La natura della trascendenza, l’esperienza della disconnessione, l’equivoco della meditazione

Chi trascende che cosa?
Io trascendo il mio limite? Lo vedo, ne sono consapevole e poi? Appoggio la consapevolezza su altro? Mi focalizzo sul respiro, sulle sensazioni, su un contenuto concettuale, sapienziale, spirituale?
Prendo atto che il limite esiste: basta così?
Oppure osservo quel limite e cerco di imparare da quello che mi porta, che mi induce a fare, ad essere?
Se osservo ed imparo, inizia il cammino del capire che conduce all’essere consapevole e sfocia nel comprendere.
Se osservo e basta, che cosa inizia? Una disconnessione. Ma la disconnessione se non è legata all’analisi dell’insegnamento che quel limite porta, è semplice rimozione: vivo una vita di pratica della meditazione, della contemplazione – entrambe incernierate sulla disconnessione – e in me cambia poco, pochissimo.
Se la disconnessione non è associata in modo indissolubile alla via del “conosci te stesso” è pura rimozione.
Se la meditazione è solo pratica dell’adesso non germoglia in altro, se non in modo residuale.
Se la meditazione cammina assieme all’insegnamento che sorge dalla pratica del limite, fiorisce in contemplazione.
La contemplazione esiste solo nel ventre dell’immanente: nell’adesso illuminato dalla conoscenza, dalla consapevolezza, dalla comprensione fiorisce la scomparsa del soggetto che conosce, che è consapevole, che comprende.
Ha un senso la pratica della meditazione? Si, se è integrata nel complesso processo del conoscere, essere consapevoli, comprendere.
Si, se è integrata in un paradigma, in una lettura della realtà personale e sociale.
Ha senso relativo quando è consumata come esperienza tra esperienze, disgiunta dal processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione, praticata per rilassarsi, concentrarsi, divenire efficienti.
In altri termini, ha funzione relativa tutte le volte che viene utilizzata e vissuta in un’ottica mondana e utilitaristica.
Un esempio. Anni fa tenevo delle meditazioni guidate tutti i sabati; venivano diverse persone e tornavano a casa rilassate e centrate: mi sentivo un bancomat del benessere, ho smesso.
Non mi interessava, non mi interessa far star bene le persone, mi interessa dare il mio minuscolo contributo perché possano trasformare se stesse e le proprie vite e questo non necessariamente avviene “stando bene”.

Immagine da: http://goo.gl/swaFVl