separazione

La separazione: il processo nostro, le responsabilità dell’altro

Ogni volta che i cammini delle persone si separano, sempre si ripete un copione che ricalca schemi logori; sempre, o quasi, la nostra attenzione è principalmente rivolta alle responsabilità dell’altro e, solo in seconda battuta, alle nostre.
L’altro con cui abbiamo camminato assieme diviene colui, o colei, che non è stato attento, non ha provveduto, ha prevaricato, ha eroso le basi dello stare assieme.
Nella fase della separazione dimentichiamo facilmente che con l’altro avevamo aperto un’officina esistenziale e che in quella noi facevamo il nostro lavoro, l’altro il suo.
A noi competeva interrogarci e lavorare sulle nostre reazioni, sulle nostre paure, sulle nostre resistenze, sui nostri limiti; all’altro spettava interrogarsi su ciò che la nostra presenza, il nostro modo di essere, il nostro limite suscitava in lui/lei.
Quando i due aprono l’officina comune di una relazione (sentimentale, amicale, comunitaria non importa) riconoscono che ci sono le condizioni per svolgere del lavoro assieme, che ci sono basi comuni, condivise, potenzialmente produttive.
Se non ci sono le condizioni di base non si apre l’officina ma, se questa viene aperta, allora ciò che spetta ai due, nel tempo, è qualcosa di molto articolato e complesso: la capacità di vedersi consapevolmente nelle mille piccole, o grandi, reazioni e dinamiche indotte dalla presenza dell’altro nella propria vita.
Senza sosta l’altro mette a nudo il nostro limite, il nostro giudizio, la nostra aspettativa.
Come lo fa? Semplicemente mostrando se stesso, nei limiti e nelle possibilità che lo caratterizzano come altro da noi.
Quando i due si separano, che senso ha dire: “Perché tu sei così!”, “Perché hai detto e fatto quello!”
Non è mille volte più importante riflettere sul perché non ha funzionato? Sul perché ad un certo punto abbiamo perso di vista il cammino comune e abbiamo cominciato a dare importanza ai dettagli, alle piccole ferite egoiche, al limite dell’altro che si mostrava a noi e non al limite nostro che si mostrava all’altro?
Non possiamo dunque dire niente all’altro, non possiamo imputargli responsabilità, non possiamo aiutarlo a capire anche le sue responsabilità?
Si, possiamo farlo, ma solo dopo aver esposto a noi stessi e all’altro le nostre responsabilità e la comprensione che abbiamo realizzato delle esperienze comuni: solo allora possiamo dire che, forse, quella modalità dell’altro non ci ha aiutati, che quell’attitudine in certi momenti ci ha appesantiti. Possiamo dire limitandoci agli aspetti esistenziali e generali, senza mai puntare il dito: perché?
Per una ragiona banale: ciò che abbiamo vissuto dell’altro non è ciò che l’altro è, ma ciò che è stato necessario che apparisse a noi affinché apprendessimo il necessario per i nostri processi interiori.
L’altro che abbiamo vissuto era il collaboratore efficace interno ai nostri processi: la questione centrale, e reale, è costituita dalle possibilità di apprendimento che ha portato, non dal perché o dal come l’ha portata: il perché e il come erano i mezzi più funzionali al raggiungimento della comprensione a noi necessaria.
La scena è nostra, sul palcoscenico accadono le rappresentazioni importanti per noi: la realtà non è oggettiva, ma squisitamente soggettiva.
Ciascuno dei due attori vive il proprio film personale funzionale agli apprendimenti che gli sono necessari. Là dove uno è l’attore principale, l’altro è la comparsa e viceversa.
Che cosa farà l’altro? Ci riguarda? Si interrogherà, comprenderà? Cambierà? Siete sicuri che ci riguarda, che dobbiamo occuparcene? O non è questione sua, perché sua è la vita e solo al suo sentire risponde?
Concludo.
Ci sono officine, a parer di chi scrive, che non possono essere che chiuse perché troppo faticose.
Ce ne sono altre che è semplicemente sbagliato chiuderle perché non hanno ancora esaurito il loro potenziale creativo.
Ce ne sono altre ancora che è ineluttabile chiudere, perché non abbiamo il coraggio di affrontare ciò che svelano di noi.
Infine, le ultime officine che non possono non essere chiuse, sono quelle che non avevano i presupposti per essere aperte: uno dei due, o tutti e due, non avevano ben guardato in se stessi quando avevano detto si: questo non toglie che non abbiano comunque imparato il necessario.

Quando in una coppia muore l’amore fino ad allora conosciuto

Quanti abbandoni del conosciuto e dello sperimentato, quante crisi dei riferimenti consolidati debbono sperimentare i partner in una coppia?
Quante volte il loro rapporto deve cambiare profondamente natura? Tante.
Prima o poi l’innamoramento lascia il passo all’affetto e questo, nel tempo, è così appannato dalla routine che sembra che i due non abbiano più legame.
Erano carichi di bisogni e sembrava che l’altro fosse colui, o colei, che poteva rispondere, poteva appagarli; sapeva comunque gettare uno sguardo, darti del tempo, esserci.
Negli anni l’hai perso/a di vista: ti dorme accanto, ci parli, avete forse anche dei figli insieme; uscite la mattina, tornate la sera ma la routine via ha piallato il cuore.
Non c’è più niente, dite.
I bisogni rimangono e l’altro non risponde, non li copre con la sua mano, con la sua presenza.
Dite anche un’altra cosa: siamo al capolinea.
Tutti i rapporti arrivano al capolinea perché tutti i rapporti mettono a nudo i nostri bisogni, il nostro esserci o non esserci, la nostra capacità di relazione e di donazione; la conoscenza di noi, dell’altro, i rifiuti, le paure: i rapporti sani arrivano al capolinea, ad un punto morto, allo svuotamento.
Le favole che la mente narra sull’amore possono condurre all’innamoramento senza fine: esperienza che alcuni conoscono; piccoli, grandi accecamenti autoindotti, quasi sempre.
I rapporti sani conoscono il deserto; le persone sane conoscono il deserto; le società sane conoscono il deserto.
Il deserto e l’assenza, la perdita del conosciuto e del rassicurante, il tempo della decantazione, dello stare, della sedimentazione.
I due, nella coppia, sedimentano: come nel silenzio, come nel sonno, come nella morte.
La sedimentazione dei vissuti, delle esperienze conduce alla consapevolezza e poi alla comprensione.
L’umano deve perdere per trovare; deve passare per il deserto per comprendere il valore dell’acqua, dell’ombra, delle risa dei bambini.
Quando a noi sembra che tutto sia finito, in quel momento il nostro problema non è chiudere l’esperienza, è indagare sui nostri bisogni e su quelli dell’altro, sul nostro esserci, sul nostro fuggire, sulla nostra dedizione, sulla nostra latitanza: in quel momento si apre a noi la possibilità di vederci, conoscerci, divenire consapevoli, comprendere.
A partire da questo movimento interno che ciascuno dei due vive, o che almeno uno dei due vive, si può riprendere il cammino comune: la stagione dell’innamoramento è lontana; quella dell’affetto routinario superata, che cosa ci attende allora?
La capacità, possibilità di imparare finalmente ad amare.

Di questo parleremo il 26-28 settembre durante l’intensivo del Sentiero contemplativo al monastero camaldolese di Fonte Avellana (PU)

Immagine da http://donna.nanopress.it/?p=323749


La coppia, post scriptum: cadute e opportunismi

Gli ultimi 12 giorni ho scritto un post al giorno sul tema della coppia: tre di questi post sono dedicati al tema della fedeltà. Può sembrare al lettore che io relativizzi la questione e nella sostanza affermi: “Dal momento che siamo limitati e in continuo apprendimento, se ci permettiamo di venire meno al patto di fedeltà non è un grave problema!”
Non dico questo ma qualcosa di molto diverso: i due procedono assieme e tra loro stabiliscono delle condizioni di base, una piattaforma di onestà cui fanno riferimento e a cui, anche quando possono cadere, fanno ritorno”.
L’espressione “anche quando possono cadere” non significa che si autorizzano a cadere, significa che conoscono sufficientemente la natura umana e sanno che gli assoluti non si confanno ad essa.
Non essere prigionieri della morale, che in sé tende a stabilire un assoluto, non significa autorizzarsi a tutti gli opportunismi, a quello che ci fa comodo nella ricerca delle molte gratificazioni, dimenticando il patto di onestà con l’altro.
Naturalmente dipende qual è questo patto e cosa prevede: i due possono anche avere contemplato il pascolo su diversi prati e, se questo è l’accordo, chi può dire qualcosa?
Se, invece i due si sono promessi coerenza e vicinanza mantenendo stretti i paletti del cammino comune, allora a quella condizione di base si sforzeranno di tornare e di rimanere coerenti.

L’immagine è tratta da: http://shotei.com/publishers/hasegawa/swordandblossom3/sb3.htm