liberta

I cattolici, il mondo, la via della libertà

Confesso che provo un moto di fastidio quando i cattolici insistono sulle questioni economiche, sociali, etiche.
Sottolineo insistono, perché è certamente un loro diritto occuparsi di tali questioni.
L’ultima occasione ieri: il Papa a Torino, è entrato così nel dettaglio delle questioni sociali che a me è sembrato più un leader politico che una guida spirituale e religiosa.
Quando leggo i vangeli, non ne traggo l’impressione di un Gesù in continua tensione con il suo tempo: vedo un uomo che ha scelto di parlare alla gente del popolo, alle donne di cose che riguardavano la loro vita interiore, il loro sentire, i loro condizionamenti.
Non mi sembra che Gesù parlasse in continuazione dei mali del suo tempo: mi sembra che indicasse una via alla libertà, un cammino esistenziale e di conoscenza ai suoi interlocutori, a coloro che riponevano fiducia in lui.
Mi sembra che parlasse all’intimo delle persone e quello privilegiasse, consapevole che ogni cambiamento sociale ha bisogno di una conversione interiore e mi sembra in lui evidente la tensione al Regno, alla relazione con il Padre, al processo di unificazione interiore.
Non mi riesce sempre di vedere oggi, nelle persone che al suo insegnamento si riconducono, questa tensione interiore, quel vivere la vita accompagnati dalla guida dello Spirito, ad esso affidati: vedo gente che molto di frequente pressa il mondo per il suo limite e per le sue ingiustizie. Sembra che la realtà, per i cattolici, non sia creata dallo Spirito ma da quello che loro chiamano il male, e questo rimanda ad un problema mai risolto, la funzione del limite, dell’imperfetto, del contingente, del separato.
Come ho tante volte detto, per noi il mondo non è il luogo dell’ingiustizia immotivata, è lo specchio fedele dell’interiore dell’umano: abbiamo il mondo che creiamo e che, dato il nostro tasso di egoismo e di ignoranza, ci meritiamo.
Dunque non ci lamentiamo, né invitiamo alla protesta quasi fossimo vittime di quella ingiustizia: ci rimbocchiamo le maniche cambiando noi stessi e invitando gli altri a farlo, se possono e se vogliono: senza pressione, senza pressare alcuno perché si cambia solo quando si è pronti, non quando secondo qualcun altro sarebbe tempo.
Il mondo con tutti i suoi limiti, è per noi l’occasione, la possibilità della nostra trasformazione: la sua ingiustizia, il dolore che lo compenetra sono l’opportunità che ci induce a conoscerci, a divenire consapevoli, a comprendere; a camminare lungo il sentiero che da ego conduce ad amore.
Crediamo che sia così anche per i cattolici, ma poniamo accenti molto differenti: nella nostra irrilevanza, insistiamo sul cammino della conoscenza interiore, individuale e collettivo, poniamo al centro il processo interiore, su questo va la nostra insistenza, il nostro sforzo, la nostra dedizione.
Sappiamo che il resto, il cambiamento del mondo, la giustizia, sono conseguenza.
La libertà interiore, frutto della conoscenza, della consapevolezza, della comprensione, genera la giustizia.

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

scarabocchio

Quando un genitore muore e lascia dei figli piccoli

Accade che una madre, o un padre, debbano separarsi dai loro figli quando questi sono ancora piccoli e avrebbero bisogno di quella presenza al loro fianco.
Un genitore deve lasciare per diverse ragioni: perché muore; perché si separa in malo modo; perché emigra.
Qui ci interessa trattare il primo caso. Accade di morire giovani, con figli ancora piccoli.
Molte volte abbiamo detto che nessuno muore prima che il proprio calendario sia finito: non un giorno prima.
Ma chi resta, come fa? Come fanno quei bambini senza più quel volto, quella presenza, quelle attenzioni, quella mano che li accompagna?
Sono di quel genitore, quei figli? Sono di quella madre, di quel padre? Siete sicuri?
Oppure quella madre, quel padre sono stati gli strumenti attivi di un progetto esistenziale che li precede e che va ben oltre loro?
Un figlio è, dal nostro punto di vista, un progetto e un processo che contempla la presenza del genitore, ma non è da essa condizionato.
Cosa significa? Che quel progetto/processo proseguirà comunque, a prescindere dalla sopravvivenza di coloro che l’hanno avviato, perché quel processo è esistenziale e si sostanzia nella relazione, nelle esperienze, nel tempo, nella conoscenza, nella consapevolezza, nella comprensione: la scomparsa di quel genitore impatta nell’esistenza del figlio, ma non la stravolge nel suo impianto esistenziale.
Quell’impatto così duro è tale da condurre allo smarrimento, o non è invece una condizione orientante, esplicitante  e rivelante il processo stesso?
Un genitore morendo toglie qualcosa a quel figlio o, invece, dona qualcosa che, dal momento che accade, è già dentro l’ecologia di quel tracciato esistenziale che lo accoglie: non che lo subisce, ma che, nel profondo, lo accoglie perché anche quella separazione è la sua vita.
Dona il genitore, attraverso il trauma della separazione, una possibilità di conoscenza-consapevolezza-comprensione nuove alle proprie creature?
Quel seme che muore, nel tempo darà vita?
Noi, nella nostra limitata visione, diciamo che nulla accade a caso: né il nascere, né il morire, né il perdere una persona amata.
Coloro che rimangono saranno certamente i più adatti a prendere per mano quei figli e ad accompagnarli là dove essi non possono che andare; questo perché il processo esistenziale di ciascuno di noi non dipende dagli altri e sempre, nell’ambiente di relazione, trova le risorse necessarie al perseguimento del proprio scopo esistenziale.

Immagine da http://granellidipsicologia.com/2013/01/


 

La resistenza al cambiamento interiore

Scrive Antonella: “Se una persona fa resistenza al passaggio dei propri vissuti, ostacolando la loro penetrazione in profondità, mi viene da pensare che  ha paura della trasformazione  perché con essa perde alcune sicurezze consolidate e, pur acquisendone delle nuove, passa attraverso una fase di instabilità che può farle paura e quindi crea una resistenza.
Mi chiedo, esiste una “leva”, un input, quale atteggiamento si può adottare affinché si abbandoni la rigidità e ci si lasci modificare, trasformare dalle esperienze e dalle nuove consapevolezze vissute?”
Quando una persona cambia comportamenti, modi d’essere, di pensare, di leggere la realtà?
Quando in essa è maturato un sentire adeguato che genera intenzioni, pensieri e comportamenti diversi e corrispondenti al nuovo sentire acquisito.
Facciamo un esempio: se le mie esperienze mi hanno portato ad acquisire un sentire di grado 10, con esso mi misurerò – e con le esperienze che esso può generare – fino a quando quel sentire non sarà completamente acquisito, compreso, stabilizzato.
Le esperienze del grado 10 strutturano quel grado e preparano l’acquisizione del grado successivo, l’11.
I cambiamenti nella persona avvengono continuamente ma divengono visibili, tangibili, confermati dall’azione solo quando il sentire si amplia.
Si può accelerare il processo della trasformazione del sentire?
Conoscendo la natura del proprio operare, pensare, intendere.
La conoscenza della natura delle spinte che ci muovono; la consapevolezza delle resistenze e delle paure, la gestione consapevole di esse; il non sottrarsi alle esperienze della vita, la sana disponibilità e curiosità verso esse facilitano il processo della comprensione che determina il maturare di un sentire più ampio.
Se la resistenza al cambiamento è nell’altro da sé, ciò che possiamo fare è cambiare noi stessi e testimoniare in modo discreto, molto discreto, il nostro cambiamento attraverso le nostre intenzioni, i nostri pensieri, le nostre azioni.

Immagine da: http://is.gd/QLAw7k