Smettere di lottare

Osservare, ascoltare, discernere, accogliere.
Il soggetto lotta e dice: “Debbo farcela!”. La persona che è in bilico tra il soggetto e la sua scomparsa, non lotta più, si dispone all’obbedienza.
A chi obbedisce? Al sentire che la conduce, che genera le scene, che la sospinge in una direzione o in un’altra.
Ad un certo punto del cammino esistenziale, l’imperativo diviene: “Smetti di lottare perché nel rumore e nell’eccitazione della lotta non puoi ascoltare quanto la vita ha da dirti!”.
Dalla cultura della lotta dobbiamo passare a quella dell’ascolto e dell’obbedienza: lo sguardo si fa allora acuto, l’intelligenza pronta, la capacità di cogliere le sfumature e di leggere i simboli, alta.

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perdere

L’arte ineffabile di ricominciare nella vita e nella via spirituale

Quando si ricomincia? Quando qualcosa che c’era è stato perduto, ha cambiato forma, ha preso una nuova direzione.
Si ricomincia senza sosta negli affetti, nel lavoro, nella via spirituale.
Non muore, in qualche modo,  tutti i giorni il rapporto con chi ci sta a fianco? Non entra in crisi e ci costringe a riposizionarlo, a rivederlo, a reinterpretarlo?
Non ci costringe senza sosta la vita ad interrogarci, producendo in noi, spesso, una crisi di orientamento, di posizionamento? E poi non seguono una catarsi e infine una rinascita?
Non è così per tutti, in tutte le stagioni della vita?
L’arte ineffabile di ricominciare ha bisogno di un’altra arte, quella del lasciar andare.
Avevo un progetto, una direttrice di sviluppo, un ordine interiore costruito nel tempo e posso, debbo, essere disposto a perderlo.
In un attimo, per le ragioni più varie ma sempre esistenziali, la vita mi sfila il previsto e il prevedibile: zero mi rimane!
Posso lamentarmi per la perdita, o rimboccarmi le maniche.
In una via spirituale non c’è scelta: ci si rimbocca le maniche. Si analizza la situazione, le sue cause, i propri errori e poi si va avanti.
Zero è la nostra piattaforma, il nostro campo base.
Zero è non avere niente di solido per l’appoggio, di dato a priori: è accettare l’impermanenza come ossatura del vivere.
Cambiano le situazioni, accogliamo il nuovo che viene, che c’è e su quello costruiamo le nuove scene, ricominciamo.
Il vento ci porta dove vuole: visti e superati i piccoli attriti, le piccole resistenze della nostra umanità, assecondiamo il movimento imposto dall’imponderabile.
Perdere, accettare, ricominciare.

Immagine da http://www.lessissexy.com/?p=2718


andarsene

La morte di un figlio

La morte di un figlio è la morte di un mondo, del mondo che quei genitori hanno conosciuto dal momento che è nato.
Le febbri e le paure; i primi passi e le prime parole; il primo natale. Il momento di addormentarsi, le parole di una storia, il rimbocco delle coperte, il chiudere la porta senza far rumore.
Una moltitudine di momenti è inscritta nell’interiore dei genitori e ciò che si è impresso nel divenire del tempo, ora muore in un attimo.
Un genitore non è mai pronto per la morte di un figlio. Mai.
Perché? Perché il perdere è un processo, ha bisogno di tempo, di un lento lavoro di trasformazione e di comprensione che avviene nel sentire.
Quando un figlio se ne va nell’arco di poche ore, il genitore precipita in un abisso; quando il processo dell’andare via è progressivo e lento, nell’intimo del genitore accadono molte cose, lo sguardo pian piano si allarga, quella perdita annunciata può essere contestualizzata, assorbita non credo, è difficile.
Il risultato finale sarà sempre lacerante, ma di una natura diversa.
Ho usato, non a caso, l’espressione “quando un figlio se ne va”.
Un figlio viene, un figlio va: siamo coloro che pensano di avergli dato la vita, e certamente è così perché nostri erano quell’ovulo e quello spermatozoo, ma quel figlio non è mai stato nostro, siamo stati gli strumenti di un progetto esistenziale, il suo, che in noi ha trovato le condizioni ambientali ed esistenziali per poter accadere e manifestarsi.
Un figlio è della vita.
Un figlio è una coscienza che si incarna in un corpo, in un ambiente, in un tempo.
Un figlio non è mai dei genitori, è un processo esistenziale che procede a fianco dei loro processi esistenziali, perfettamente autonomo pur nella relazione profonda e nell’intreccio delle esistenze.
La piccola identità di un figlio che cresce non è autonoma, ma il progetto esistenziale lo è sempre e segue le propri logiche, il proprio tracciato esistenziale.
Quando un figlio se ne va obbedisce alle logiche di quel processo: non al caso obbedisce, non alla sfortuna, non alla malattia.
Un figlio non muore per caso, non per colpa di qualcuno.
La morte di un figlio non è un’ingiustizia, è il compimento di un processo di una coscienza che mai è stata nostra: ci ha accompagnato nei giorni e negli anni e, quando è stato il suo tempo, non un’ora prima, ha concluso il proprio ciclo.
Un figlio che muore non soffre, nessuno quando muore soffre né per il passaggio, né per la separazione: ciò che l’attende è molto più vasto di ciò che lascia, intriso di comprensione, di compassione, di un vivere e sperimentare nuovi.
Un genitore perde il proprio mondo conosciuto; non essendo mai pronto, precipita nell’abisso della mancanza, dell’amputazione, dell’ingiustizia.
Ci vorrà del tempo, la forza di reggere l’impatto, un lavoro su di sé teso a capire e a comprendere per non coltivare solo il rifiuto dell’apparente follia dell’esistenza.
Ci vorrà del tempo e il tentativo di accogliere il disegno dell’esistenza sul figlio andato e su di sé, che resta e che deve vivere questo dolore, questo passaggio, questo perdere una vita e non riuscire a trovarne un’altra.
Un’altra vita verrà e potrà essere piena di compassione e di comprensione, se quel genitore avrà aguzzato lo sguardo nella profondità del processo esistenziale che l’ha travolto, se non si stancherà di indagare il proprio sentire, se non si fermerà a risiedere nel proprio dolore.
Quando un figlio muore, quel figlio consegna ai genitori, attraverso un processo molto doloroso, una nuova vita fondata sulla conoscenza, sulla consapevolezza, sulla comprensione.

Immagine da http://goo.gl/vGb8Mr