[Sommario AI] L’autore critica gli insegnanti di religione che non insegnano l’esperienza diretta dell’essere corpo, ma si limitano a un insegnamento teorico e formale.
L’autenticità della trasmissione spirituale risiede nell’onestà sia del maestro che del discepolo, nel loro impegno reciproco e nella condivisione del percorso, più che nella perfetta comprensione di una verità.
L’esempio dello “star seduto immobile” di Nagarjuna viene analizzato come simbolo complesso di un’esperienza. [/S]
Eppure tutti gli insegnanti di religione, tutti i maestri che si atteggiano a essere tali, non insegnano il semplice fatto di essere corpo, non insegnano la vita con la vita, ma fanno dell’insegnamento un’attività intenzionale e speciale, insegnano apposta. I loro gesti sono studiati, perché stanno interpretando una parte.
[→uma] “Non insegnano il semplice fatto di essere corpo”: non so cosa insegnino e, alla fine nemmeno mi interessa. Ogni discepolo capita col maestro che gli necessita e ogni maestro ha il discepolo buono per lui, questo ho appreso in trentanni di insegnamento. Di questo prendo atto con profonda compassione: sono sicuramente stato un somaro di maestro e certamente ho avuto discepoli a volte più somari di me, a volte migliori, certo è che ragliando insieme molto è cambiato in me, negli altri non so, come posso saperlo?
Il semplice fatto di Essere-corpo è tutto tranne che un semplice fatto, è l’opera delle opere e la gran parte di maestri e discepoli in quell’opera è impegnato, ciascuno ragliando come può. Non vedo maestri immuni dal ragliare né discepoli ideali, vedo tentativi e concepisco la via come un infinito tentativo finché il saṃsāra non tira le cuoia.
Conta trasmettere il giusto modo dell’Essere-corpo, dell’Essere-Unità diremmo nel Sentiero? E qual è – e chi lo decide – il giusto modo? Quanti hanno creduto di trasmetterlo ed erano dei pifferai stonati?
Non credo sia questa la questione e lascerei all’Assoluto il compito di essere assoluto accontentandomi di due dati:
– dell’onestà del maestro che offre l’interezza unitaria del compreso che si esprime attraverso di lui;
– dell’onestà del discepolo che si apre consapevole della posta in gioco, dei rischi, di quel che implica la rivoluzione interiore alla quale si appresta.
Guarderei al processo perché è quello che conta: il raglio conta più della verità scodellata se in esso si è onestamente immersi, e questo perché, comunque, la bussola della verità è sempre in funzione e non c’è creatura che non diriga ogni attimo della sua esistenza verso quel nord magnetico sempre operante e che senza fine chiama sé ogni essere che esiste. [/uma]
Per loro il cerchio vuoto che tutto abbraccia non è il loro proprio e l’altrui essere corpo, la realtà della vita, ma un nome da appiccicare alle cose, un segno da vergare su di un foglio. Lo star seduto di Nagarjuna che manifesta interamente la natura autentica che è incarnazione nel corpo, non è altro che star seduto immobile. Loro invece, fanno dello star seduti l’argomento dei loro sermoni. E di questo si soddisfano: ma chi si sfama con il disegno di un cibo, vuol dire che non aveva fame di quel cibo, e non lo mangia né lo assimila. Come può allora farlo proprio e parlarne?
[→uma] “Lo star seduto di Nagarjuna che manifesta interamente la natura autentica che è incarnazione nel corpo, non è altro che star seduto immobile”. Come ho detto in diversi passaggi di altri post, quello star seduto immobile è una complessità, un simbolo molto complesso e questo è più che chiaro anche a Jiso.
Trasmettere la natura simbolica, esistenziale, pratica, vitale di quello stare seduti immobili è trasmettere la pelle, la carne, le ossa e il midollo del compreso che opera in noi, ovvero è mettere totalmente in gioco le nostre esistenze nella relazione. Alla luce di questo guarderei alla moltitudine di maestri e di discepoli e alla loro capacità di compromettersi l’uno con l’altro e mi azzarderei a parlare di trasmissione autentica, di un tentativo di trasmissione autentica. [/uma]
Se sul cuscino non c’è la forma del corpo in carne e ossa, la luna non è piena, la via non è attuata. Nulla avviene per sentito dire o per interposta persona. È solo con il proprio corpo che si può disegnare la forma della luna piena, la pienezza dell’essere. La pienezza, la rotondità che è figura della completezza, non sono concetti o ideali: sono realtà concreta. Proprio perché la forma del corpo è la forma della pienezza è possibile attuare la forma piena, la forma della luna tonda. Se fosse un idea cui uniformarsi, non la raggiungeremmo mai. Siccome invece l’idea nasce dalla realtà autentica, la possiamo attuare nella realtà momento per momento. Stiamo solo attenti a non invertire i termini: il tondo non si apprende dall’idea di tondo, ma è l’idea di tondo che scaturisce dalla realtà del tondo, dall’essere corpo del tondo.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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