Quella che segue è una contemplazione, non l’esposizione di una tesi, pertanto non ha pretesa alcuna di completezza.
Il contemplativo sente la guerra così come sente le fatiche umane di ogni giorno, fatiche di moltitudini che cercano di comprendere il necessario per loro. Il necessario esistenziale.
Per alcuni quelle fatiche divengono le sofferenze grandi implicite in un conflitto armato: sofferenze per individui che ricoprono ruoli diversi ma che, per necessità del loro sentire, sono coinvolti in maniera diretta e così quei fatti e processi divengono il loro pane quotidiano.
Di fronte al conflitto il contemplativo aspira alla pace? Per quanto questo sia il modo comune di intendere, non è questa l’intenzione che muove il contemplativo: egli si augura che i protagonisti in campo comprendano le ragioni interiori – il non compreso – del loro confliggere e le superino.
Il contemplativo conosce le ragioni storiche del conflitto, vede l’aggressore e l’aggredito ma soprattutto sente ciò che accade sul piano degli individui, sul piano delle coscienze e comprende che non può esserci pace se non vengono rimosse le cause interiori del conflitto: innanzitutto le cause interiori.
Certo, superare le cause interiori significa consegnarsi a un lungo processo e sarebbe bene che il conflitto armato finisse molto prima, possibilmente subito, in modo da cessare tutta la sofferenza provocata, ma il fuoco acceso dal non compreso è potente e spesso ha bisogno di tempo, ovvero di processi esistenziali, per essere placato.
Il contemplativo, insieme a tanti, chiede la pace, ma, conoscendo l’animo umano, è realista e sa che quella del confliggere è una delle officine primarie di una razza incarnativa, officina frequentata da tutti coloro che hanno necessità di evolvere nel sentire.
Chiede la pace ma comprende la guerra.
La compassione che guida il contemplativo lo porta a osservare e contemplare il teatro umano e come questo divenga il luogo di cose orribili: dall’orribile della guerra, risale alla consapevolezza dell’Essere e prende atto non di una impotenza ma dell’ineluttabilità dei processi del sentire, là dove tutto è sentire, non altro, guerra compresa.
Quella compassione lo fa scendere nel microcosmo di quel soggetto che in quel conflitto è prigioniero di se stesso, in un attimo senza tempo lo può comprendere.
Questo non significa che il contemplativo sente il mondo di quell’individuo, significa che condivide il suo sentire, sente come lui e può dire una parola o può tacere nella consapevolezza che ci si arrende alla pace per comprensione, non per altro.
Ci si arrende alla pace perché l’avversione che alligna in sé è stata superata. Il lettore mi osserverà che nell’aggredito potrebbe non albergare nessuna avversione: può darsi, ma se il teatro della guerra accade, è teatro esistenziale generato anche dall’aggredito, altrimenti non accadrebbe, e dunque un qualche apprendimento che abbisogna di quell’estremo è in corso.
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Concordo con quanto si afferma nel post.
Gratitudine per queste parole.
Condivido ogni parola. Nella speranza di pace, è implicita la speranza che i processi di comprensione avvengano quanto prima, anche sostenuta da chi quelle comprensioni le ha, anche solo in parte acquisite.
Consapevole che i fatti devono avere il loro corso e che le comprensioni non avvengono né prima, né dopo, ma quando il sentire è maturo.
Parole importanti sulle quali riflettere. Ognuno vive conflitti diversi, comprensioni diverse tutte importanti per il contemplativo