[Sommario AI] Raggiungere la retta via richiede una retta credenza nella giustezza della natura autentica, che traspare ovunque, superando l’ego.
L’autore dubita della credenza stessa, preferendo il sentire all’atto del credere.
Manifestare il corpo autentico rappresenta il limite ultimo dell’insegnamento, raggiungibile solo quando la conoscenza è “corporea” e diretta, senza mediazioni
Il linguaggio, pur potendo essere una gabbia, può aiutare a interrogarsi sul manifestarsi della natura autentica, che è un accadere di consapevolezza senza “io” né forma.
Il sentire unitario, non individuale, dovrebbe guidare il pensiero, le emozioni e le azioni, attraverso un processo creativo che veste il sentire di forme espressive adeguate. [/S]
Solo chi crede in modo retto raggiunge la retta via: queste sono parole che non dobbiamo sottovalutare, quale che sia l’ambito in cui si svolge la nostra vita. Credere in modo retto vuol dire credere che la giustezza della natura autentica traspare dappertutto in modo chiaro: togliere di mezzo lo spadroneggiare dell’io è il primo passo perché questa trasparente chiarezza, che a volte appare così estranea, sia invece la familiarità del nostro procedere.
[→uma] “Credere in modo retto vuol dire credere che la giustezza della natura autentica traspare dappertutto in modo chiaro”: nella frase il verbo credere compare due volte ma a me solleva grandi dubbi.
Credo in qualcosa io? Credo nella natura autentica? Vi credo in modo retto? Ahimè, è un modo di ragionare che mi spaventa.
Non credo niente, semmai sento e ciò che sento lo percepisco vero ma, pur percependolo vero non credo, non sviluppo credenza, non sviluppo niente, lascio in sospeso sull’abisso.
Ecco, questo lasciare in sospeso sull’abisso per me ha un senso centrale: non posso trasformare ciò che sento in ciò che credo, non voglio credere voglio che esista solo il sentire: se credo, se aggiungo questo moto, aggiungo me su qualcosa in cui non c’entro niente, su qualcosa che non mi vuole, per cui non sono necessario: il sentire basta a se stesso, non ha bisogno del mio credere. [/uma]
L’insegnamento che dice: in questo modo io manifesto il multiforme corpo autentico rappresenta il limite ultimo di ogni insegnamento: oltre quello, infatti, non c’è che la realizzazione in carne e ossa. Quando la conoscenza non è conoscenza col corpo, ma mediazione fra ciò che è e ciò che deve essere, allora non è possibile vedere e udire direttamente. In un certo senso è l’insegnamento stesso a ostruire. Per questo ci si limita a dire che non è l’occhio che vede, né l’orecchio che ode, né il cuore che conosce. Quando invece è evidente che la via è corpo, quando è chiaro che la natura autentica è essere corpo, allora in questo modo io manifesto il multiforme corpo autentico. Il corpo di Budda è la realtà del momento presente: non c’è nulla da ricercare altrove. Ma questa non è una vuota formula: è la carne e il midollo della mia vita. Tutto il potere, tutta la virtù, tutte le proprietà di Budda, derivano da questo: dal riconoscere che il corpo di Budda è essere corpo, e quindi vivere di conseguenza.
[→uma] “In questo modo io manifesto il multiforme corpo autentico” [F-M]. Tollini traduce così le parole di Nāgārjuna: “Il mio corpo manifesta la forma della luna rotonda con questo esprimo il corpo di tutti i buddha”.
Il linguaggio, nella sua natura duale, può essere una gabbia ma può anche esserci di sprone per interrogarci più a fondo: chi manifesta il corpo autentico, la natura autentica? Il suo manifestarsi, l’abbiamo visto, non ha bisogno di un “io” e non è il manifestarsi in un corpo, in una forma, è l’accadere della consapevolezza di un sentire senza tempo e senza forma.
Se così viene sentito/vissuto, allora il nostro pensiero e linguaggio debbono cambiare altrimenti tradiscono il reale sperimentato: non c’è “io”, non c’è “mio corpo”, c’è solo l’accadere della consapevolezza di un sentire che appartiene a nessuno.
Possiamo noi considerare che qualcosa che accade appartenga a nessuno? O è follia? Possiamo osare aprire alla considerazione che il sentire non sia personale, che esista un livello del sentire non individuale, non condizionato da separazione e sequenzialità? Oppure, se questo osiamo, trabocchiamo di presunzione?
Posso affermare che quando la natura autentica È (è corpo autentico, direbbero Dōgen e Jiso), esiste solo essa e tutto il resto non è? Non è non perché viene negato, ma semplicemente perché, in sé, non esiste e questa non esistenza è evidente nel momento in cui la natura autentica occupa l’intero spettro dell’Essere ed Esistere.
Esiste il sentire e non è il “mio” sentire. Esiste l’Unità, e non è l’unita di me: non a caso, per definire uno stato unitario noi usiamo un verbo all’infinito: Essere. Il nostro linguaggio può divenire la declinazione del nostro sentire e a sentire unitario può corrispondere linguaggio unitario?
Non è un auspicio il mio, non abbiamo solo il compito di agire il sentire ma anche di pensarlo e di provarlo: l’agire è l’ultimo passo ed è preceduto dal provare emozioni e affetti coerenti col sentito; sviluppare pensiero che sia una decodifica fedele del sentito.
Se il sentito è il vertice, a cascata il pensare, il provare e l’agire hanno necessità di essere decodifiche fedeli al vertice che le origina. L’atto creativo del sentire deve vestirsi di vibrazioni e di forma che lo esprimano il più pienamente possibile. Questo è il tentativo del contemplativo. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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