Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
❓ 5 «Nell’insegnamento di Śākyamuni così come venne in seguito sistematizzato, vi sono le tre indicazioni che riguardano, rispettivamente:
– l’osservare i precetti e non compiere il male,
– il fare zazen,
– il dischiudere la saggezza nell’osservare i precetti e nel fare zazen;
vi sono inoltre le sei perfezioni:
– donare,
– obbedire ai precetti,
– essere pazienti,
– essere coscienziosi,
– fare zazen,
– e così facendo dischiudere la saggezza.*
Sia nei primi tre che negli altri sei aspetti dell’insegnamento vi è lo zazen. Allora, dato che chiunque voglia apprendere e mettere in pratica tutto l’insegnamento di Śākyamuni deve in ogni caso fare zazen, questo è solo uno degli strumenti a disposizione. Quindi, perché dite che il solo zazen è tutto l’insegnamento di Śākyamuni?»
*Dāna: generosità, disponibilità;
Śīla: virtù, moralità, condotta appropriata;
Kṣanti: pazienza, tolleranza, sopportazione, accettazione, imperturbabilità;
Vīrya: energia, diligenza, vigore, sforzo;
Dhyāna: concentrazione, contemplazione;
Prajñā: saggezza.
Fonte
Risposta «Questa domanda nasce dal fatto che viene definita “zen” quella scuola in cui è particolarmente praticato lo zazen, cardine e base dell’insegnamento di Śākyamuni. Questo modo di esprimersi, “scuola zen”, ha avuto origine in Cina, in India esso non esisteva.
Bodhidharma, trasmettendo in Cina per la prima volta l’insegnamento di Śākyamuni, sedette in zazen per nove anni nel tempio Shorinji sul monte Sū37. Coloro che furono testimoni di ciò, non conoscendo l’insegnamento di Śākyamuni lo definirono “l’asceta dello zazen” e, imprecisamente, diedero nome “scuola dello zazen” all’insieme dei praticanti religiosi divenuti discepoli di Bodhidharma, che facevano zazen. Al giorno d’oggi l’ideogramma “za”38 viene omesso e si parla semplicemente di “scuola zen”. Questi particolari sono citati nella raccolta dei detti di coloro che in Cina hanno realmente praticato lo zazen.
37 Il monastero nel quale la leggenda colloca Bodhidharma; in cinese detto Shaolin, sul monte Song.
38 Za in giapponese significa “sedersi”.
Per questo motivo lo zazen di cui ora stiamo parlando è diverso dallo zazen inteso come metodo di pratica religiosa nelle tre indicazioni [o modi di apprendere] e nelle sei perfezioni precedentemente citate. Quel modo di fare che è l’andar trasmettendo in maniera corretta, di generazione in generazione l’insegnamento di Śākyamuni, è già limpidamente palesato, fin dalla prima generazione, da Śākyamuni stesso. Vi fu chi vide chiaramente con i propri occhi la realtà del fatto che Śākyamuni, durante il discorso di insegnamento tenuto sul Monte dell’Avvoltoio, trasmise a Mahākāśyapa quell’insegnamento. Questo è indubitabile.
Come l’occhio vivente di Mahākāśyapa ha visto l’occhio vivente di Śākyamuni, così, di nuovo, la comunione dell’identità ha continuato ad avvenire tramite il vedere quell’occhio vivo con i propri occhi vivi e, per questo, quel modo di essere sempre nuovo non invecchia mai. Quindi, chi fa zazen, con i suoi stessi occhi vede gli occhi di Śākyamuni. Dunque, poiché zazen comprende la totalità dell’insegnamento di Śākyamuni, non deve essere considerato alla stregua degli altri metodi di pratica religiosa».
La questione è complessa: la pratica dello zazen è interna a un humus culturale che respira l’insegnamento di Śākyamuni, come separare zazen da questo? Certo, Dogen vuole porre in risalto lo zazen e conferirgli una centralità, ma una pianta non esiste senza il terreno su cui cresce. La via è un processo che contempla molti fattori interconnessi e che è percorsa da un individuo immerso in mille condizionamenti, primo tra tutti quello culturale. L’individuo davanti al muro è istinto, affetto, cultura, sentire e ognuno di questi piani lo condiziona e ha necessità di essere conosciuto e interpretato.
Zazen lo porta oltre tutto questo? In parte relativa. Un umano è una complessità che può essere abbandonata solo quando il sentire è maturo, prima non c’è possibilità di cortocircuiti che lo trascendano. Certo, sono possibili esperienze di comprensione che maldestramente vengono scambiate per illuminazioni in virtù dell’impatto che provocano sui corpi transitori, ma qui torna l’assurdità di questo termine, l’illuminazione, che andrebbe soppresso e sostituito da “comprensione”.
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“La pratica è interna a un humus culturale che respira l’insegnamento di Śākyamuni… La Via è un processo che contempla molti fattori.”
In un contesto culturale in cui mancava terreno fertile per maturare alcune comprensioni, lo zazen veniva posto al centro, forse con l’intento di coltivare la dimensione più intuitiva della comprensione.
Forse Dogen nella frase “dischiudere la saggezza nell’osservsre i precetti e nel fare zazen” intendeva come saggezza proprio quello che noi chiamiamo comprensione.
Resta da vedere se l’osservanza dei precetti, soprattutto se acritica, dischiuda davvero la saggezza.