Il commento di Jiso Forzani al secondo capitolo.
Questa parte del testo è molto importante per familiarizzare con il procedimento usato da Dogen, e soprattutto per capire da che punto di vista egli parla.
[→uma] Gli interventi successivi del curatore non intendono commentare o integrare quanto affermato da J.F.: sono inserti che sorgono dai temi proposti ed esprimono la visione e la tensione che attraversa il curatore e, immagino, ogni monaco del Sentiero. Se le parole di Jiso sono il suono della campana, le nostre sono il suo riverbero in noi: una situazione contemplativa, dunque. [/uma]
A costo di importunare il lettore ripetendo quanto già detto fino a ora, è necessario sia chiaro fino all’evidenza che Dogen non sta cercando di farci apprendere una nuova terminologia, né di spiegarci in modo più esauriente e profondo la visione buddista. Vuole solo stimolare il nostro orecchio che intende, senza il quale qualunque parola, per elevata o acuta che sia, non ha alcun significato religioso. L’orecchio che intende è quello che vibra come un diapason, è l’orecchio che, fatto vibrare, vibra dello stesso suono che produce. È l’orecchio evangelico che, colpito dal vangelo, vibra facendo sì che la lingua emetta il suono del vangelo: è l’orecchio di Budda che, colpito dal verbo di Budda, vibra in modo che le labbra emettano il suono della lingua di Budda.
[→uma] Nel Sentiero diremmo che è il sentire del ricevente che vibra all’unisono con il sentire emittente. Il sentire è frutto delle comprensioni acquisite: se qualcosa relativo a una data comprensione viene detto od operato, se in noi quella comprensione è maturata sentiremo quel dire e operare come veri, autentici. Ci sentiremo in profondo accordo e armonia esistenziale con la situazione. [/uma]
1- Ogni cosa che è non è un’espressione del linguaggio buddista che indica l’insieme di tutte le cose, o l’universalità dell’essere: è parola che, se intesa, fa vibrare tutto l’essere in sintonia con tutto ciò che è. Non è una parola descrittiva, ma parola che crea un rapporto.
[→uma] “Ogni cosa che è”: ogni cosa che È ed esiste è espressione che va sentita, il pensarla è fuorviante. Per il contemplativo è il primo approccio, infatti egli, innanzitutto, sente il reale che è e che gli si presenta a ogni attimo del giorno e della notte. L’espressione non rimanda a nulla di materiale, a nessuna tautologia: “Ogni cosa che È impressiona questo sentire”. [/uma]
2- L’essere di ogni cosa che è* non è l’essere di essere-non essere**: non è l’essere che è in virtù del proprio contrario.
[→uma] “L’essere di ogni cosa che è“: la natura di Buddha. Cos’è l’Essere di ogni-cosa-che-È? Se ogni cosa-che-È, è Essere ed esistere, il suo Essere è ciò che la rende essente ed esistente. Quindi ogni-cosa-che-È esprime un principio che la origina – Essere – e che la rende esistente.
Quel principio noi diciamo essere “sentire“: materia e vibrazione di materia che non appartiene alla percezione dei corpi transitori (fisico, astrale, mentale) ma a quella del corpo che possiede i sensi per la sua percezione, il corpo akasico o della coscienza; è con i sensi del corpo della coscienza che noi sentiamo.
Contemplando ogni cosa-che-È noi cogliamo l’Essere che l’origina e la rende esistente: contempliamo l’origine e la forma, l’Essenza e la sua manifestazione in quanto indissolubili. Perché indissolubili?
In virtù di un principio fisico piuttosto semplice: l’unità elementare del piano fisico (quella da cui poi originano tutti i corpuscoli che infine porteranno alle particelle subatomiche e all’atomo) è composta da due unità elementari del piano astrale; l’unità elementare del piano astrale è composta da due unità elementari del piano mentale; l’unità elementare del piano mentale è composta da due unità elementari del piano akasico, il piano del sentire, il primo dei piani “spirituali e permanenti la cui sostanza costituente chiamiamo “sentire”.
Risulta chiaro che il mattone costituente tutta la costruzione della realtà è il sentire: il contemplante, utilizzando i sensi del corpo akasico per “ascoltare”, cogliere il reale di ogni momento, coglie su tutti i piani: fisico, astrale, mentale, akasico l’essenza di Essere ed esistere, sente il sentire di cui ogni cosa-che-È è costituita.
**Non parliamo dell’essere-non essere, della dimensione duale fondata sulla distinzione, separazione e contrapposizione: siamo nella realtà unitaria dove Essere non è contrapponibile a niente, è la totalità unitaria che non ha contrario sebbene contenga i contrari, ovvero tutta la realtà duale. [/uma]
Noi affermiamo che la luce è quando il buio non è, e affermiamo che la luce non è quando il buio è: l’essere della luce è relativo al suo non essere. Non è questo l’essere che ogni cosa che è vuol dire. È l’essere di cui solo si può dire che è, perché non c’è nulla altro da sé che lo causa, lo sostiene e lo giustifica (il mondo intero non ha granellino di polvere estraneo a sé, lì dove sei non c’è un altro te stesso).
L’essere così compreso non è qualcosa che comincia o finisce, qualcosa che si raggiunge, qualcosa di cui si fa esperienza, qualcosa di cui si è consapevoli*: non è qualcosa che prima era solo in potenza e poi si realizza per buona volontà o per caso, per accordo con la legge universale, per miracolo, in virtù della pratica.
[→uma] *Qui dobbiamo opinare:
– “L’essere così compreso non è qualcosa che comincia o finisce”: certo, quest’Essere è in una condizione di atemporalità, quindi non scorre, non diviene: così viene sentito e così è se circoscriviamo la nostra analisi, ma potremmo arrivare ad altre conclusioni se allargassimo lo sguardo, ma non lo faremo.
– “qualcosa che si raggiunge”: certo, non c’è nulla che una soggettività possa fare per raggiungere quell’Essere, nulla che dia risultato certo, nulla che veda la volontà come arto determinante. Eppure, a noi immersi nel divenire che di quell’Essere siamo diretta espressione e manifestazione, a un certo punto del divenire si palesa la consapevolezza di sentire d’Essere e d’Esistere. Quella condizione è la nostra natura originaria ma a un certo punto possiamo sentirla consapevolmente, può accadere questo.
– “di cui si fa esperienza”: e invece l’esperienza dell’Essere è possibile come esperienza di sentire, esperienza inconfutabile e inequivocabile, accessibile a chi fa della contemplazione la propria cifra. Esperienza che può poi divenire narrazione, o può non divenirla, ma nell’intimo suo il contemplativo sa di star sentendo l’Essenza.
La consapevolezza illumina e registra quel sentire sperimentato, l’intero essere dello sperimentatore viene vibratoriamente permeato e scosso da quell’esperienza ed essa, la consapevolezza, è vivida in tutti i corpi transitori e nel corpo della coscienza, tutto e tutti risuonano sulla nota di Essere.
– “non è qualcosa che prima era solo in potenza e poi si realizza per buona volontà o per caso”: lasciando perdere il caso che vale solo per alcuni dei seguaci del dio della scienza, possiamo dire che Essere è a prescindere ma si innerva nella consapevolezza ordinaria secondo le leggi del divenire: essere a prescindere significa che Essere è l’origine, il percorso e la fine, è il tutto-uno-che-non-diviene ma che è all’origine del divenire che tutti noi sperimentiamo.
L’Essere immutabile ed eterno origina i percorsi esistenziali che viviamo nel tempo, non è indifferente che vi sia la buona volontà in chi nella dimensione temporale è immerso: questo non rende diverso l’Essere, ma cambia la nostra apertura verso di Esso e quell’apertura aiuta a condurci da una illusoria separazione a una unità più o meno consapevole. Non cambia l’Essere, che non dipende da questo, cambia il modo di sentire il divenire nel quale siamo immersi.
– “per accordo con la legge universale”: Essere è la legge universale, ma l’umano, espressione di Essere, lo incarna e realizza un’armonia e un accordo con Esso solo in conseguenza di processi, lunghi e illusori processi di sintonizzazione con una emittente che in fondo non è niente altro che noi stessi intesi come realtà autentica.
– “per miracolo”: quanto assomiglia l’illuminazione istantanea di Dogen al miracolo! Non perché egli intenda che si realizza in un attimo un Essere che prima non c’era, ma perché egli – e uno stuolo con lui – crede che la sintonizzazione con Essere possa avvenire in un attimo. Così non è: il momento della sintonizzazione – e del miracolo – è l’affiorare della punta dell’iceberg, mille processi, nel tempo, hanno preparato quella emersione.
Certo, viene un momento in cui si ha consapevolezza di un dato sentire: un momento lungamente preparato, maldestramente interpretato, viene preso a se stante quando invece è espressione di molteplici vite e apprendimenti, di sentire che si è strutturato attraverso le comprensioni derivanti dalle esperienze.
– “in virtù della pratica”: non è la pratica che realizza l’Essere la cui esistenza è a prescindere, ma la pratica – fondandosi sulla disconnessione dall’identificazione con il divenire e la soggettività – è fattore agevolante al pari della buona volontà e delle disponibilità a vivere le esperienze senza timore e reticenza.
Essere È, ma lo sentiamo e lo diveniamo – noi immersi nel divenire – in virtù di alcuni fattori interiori che cambiano la nostra disposizione rispetto al reale: la pratica cambia il nostro sguardo, rompe la barriera, apre e dispone, crea il secchio vuoto entro cui può piovere.
La pratica non genera l’Essere ma lo manifesta, soprattutto quando è pratica totale che va ben oltre lo zazen. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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