La differenza tra il ringraziare e l’essere quel grazie

Durante gli intensivi a Fonte Avellana, recitiamo prima dei pasti il testo che trovate alla fine di questo post: è un testo complesso che parla al sentire più che alla mente e che descrive un principio: noi non ringraziamo una entità divina per il dono della vita, noi siamo l’entità, il dono e la vita.
Il tentativo nostro è quello di andare oltre il pensiero duale, di plasmare le menti e le interiorità con la forza della visione e dell’esperienza unitaria.
È un tentativo non semplice perché nell’umano il duale opera in modo implacabile e permea ogni piega del suo essere.
Nel ringraziare c’è chi ringrazia e chi è ringraziato, nello specifico l’umano ringrazia il Creatore di sé e di tutto l’esistente.
Ad un certo livello di comprensione, e dunque di sentire, l’umano avverte distintamente che tutto ciò che vive è dono, gratuità, offerta di possibilità.
Prima di questo livello di sentire, l’umano è incernierato nella propria centralità ed egoicità e, non di rado, si comporta da piccolo despota del suo microscopico regno. In questa ottusa comprensione di sé e del mondo, egli sviluppa una competizione continua con gli altri micro-regni e disperde le energie sue e del suo ambiente nel vano tentativo di sentirsi d’esistere e nell’altrettanto vana ricerca di un senso al suo esserci.
L’avvertire la vita come un dono gratuito è, naturalmente, indice di un sentire evoluto: è però anche l’indicazione che ci si muove ancora nell’ambito del duale.
Noi vorremmo andare oltre, perché oltre è la nostra esperienza e comprensione: ciò che esiste ferialmente è creato dal sentire individuale e dai sensi che da esso traggono origine, sentire che è interno alla natura dell’Essere/Origine così come interni ad esso sono tutti i suoi frutti e, dunque, se non è possibile separare Creatore e creatura, cosa c’è prima di questa separazione?
Quella creazione del reale avviene alla luce di innumerevoli e determinate leggi e queste evocano la necessità dell’Entità divina/Origine: ogni fatto esistente, ogni essere è interno a quelle leggi e alla essenza-volontà che le ha generate, dunque ogni essere è interno all’Essere-Uno e assoluto.
Viene una stagione, nel sentire, in cui affermare che esiste Dio ed esistiamo noi, non ha più alcun senso.
Viene una stagione in cui nessuno è Padre di nessuno e non esistono figli di Dio.
Viene una stagione in cui, nel sentire, tutto è Uno e mai è divenuto due.
Viene anche una stagione in cui è necessario che le menti si pieghino e si addomestichino al nuovo compreso, perché altrimenti continueremo a sentire in un modo e a dichiarare in un altro, vivendo una sostanziale frattura tra i piani del nostro essere e una conseguente frustrazione per una incompletezza che non riesce a sanarsi.
L’unità del sentire deve trovare riscontro in ogni intenzione, gesto e parola: i mistici, spesso, hanno ovviato ai limiti del paradigma cui aderivano, utilizzando l’espressione poetica per veicolare l’universo interiore a cui avevano accesso.
Noi vogliamo farlo attraverso il linguaggio ordinario e logico, fin dove possibile.
Se io non sono il centro, cosa lo diventa? Il fatto che accade.
In che modo un fatto viene percepito? Attraverso i sensi dei vari corpi.
Se un fatto non è interpretato ma semplicemente osservato e lasciato transitare, esso suscita delle impressioni sui sensi e quelle impressioni, da sole, conferiscono senso e pienezza all’esperienza, completezza unitaria, esperienza unitaria d’essere. Se la mente è vuota di sé.
La chiave è non aggiungere niente al fatto che accade, ovvero non aggiungere catalogazione, parametrazione, aspettativa.
Se il fatto è libero da ciò che la mente vi aggiunge, esso è il Reale.
Quel Reale non ha soggetto, né oggetto; non ha Padre, né figlio; non ha Creatore, né creatura.
Risiedendo la consapevolezza in quel fatto,
libera dall’etichetta di creatura attribuita dalla mente,
libera dal considerasi beneficiaria di un dono,
libera dal percepirsi piccola o grande, limitata o illimitata,
sorge l’esperienza dell’Essere privo di ogni attribuzione.
Ecco allora che, nella Realtà-che-È, diviene impossibile pregare e ringraziare perché il farlo romperebbe irrimediabilmente l’unita di quanto sperimentato che non ha bisogno di nessuna aggiunta.
Nulla spinge l’esperienza, in quella fase, a ringraziare: è possibile solo contemplare e la contemplazione è stato squisitamente neutrale, né attivo, né passivo, solo Essere-che-È.
Prima di questa esperienza è possibile, giusto e naturale ringraziare: prima di arrivare alla scomparsa completa del soggetto, quando ancora permangono tracce del due.
Alla luce di questa comprensione ed esperienza, si spiega la ragione per cui nel testo che leggiamo prima dei pasti, noi affermiamo:
Noi non compiamo il gesto del mangiare,
noi siamo il mangiare.
Noi non beviamo,
siamo il bere.
Noi non celebriamo,
siamo la celebrazione.
Noi non entriamo in comunione,
siamo la comunione.
Noi siamo Te,
la Tua vita unitaria così come si dispiega nelle mille forme
e nelle mille apparenze del divenire.
Mangia il soggetto nutrendosi di un oggetto: il mangiare implica una relazione entro una certa logica e alla luce di un certo sentire.
Oltre quella logica e illuminati da un altro sentire, c’è solo il mangiare senza relazione duale alcuna: non “io mangio”, “accade il mangiare”.
È un esperienza precisa ed inequivocabile che accade ogni volta che, appoggiando saldamente sul piano delle sensazioni, la consapevolezza semplicemente registra i fatti e la mente niente vi aggiunge.
È lo stato contemplativo di cui infinite volte abbiamo parlato: è l’unità dell’Essere inequivocabile e feriale.
È l’ammutolire definitivo di ogni dualità.


Noi non Ti ringraziamo per il cibo che ci doni,
ringraziandoti dovremmo affermare che Tu sei altro da noi,
divisi e separati tra chi dona e chi riceve:
no, non possiamo ringraziarTi per questo,
perché questa non è la Realtà come noi la comprendiamo.
Noi siamo attraversati dalla gratitudine
per la Tua consapevolezza che ci costituisce,
che permea i nostri sensi e che, chiaramente e lucidamente,
ci permette di essere e condividere la natura della creazione,
natura di Te, natura di noi mai altro e distinto da Te,
natura di ogni essere in Te,
natura di un Tutto inscindibile e mai frammentabile.

Il gesto del nutrirci attraversati dalla Tua consapevolezza
e dal senso di gratitudine che scaturisce da Te,
è celebrazione e comunione che accade nell’intimo Tuo;
è il gesto del divenire Uno di ogni essere,
che in sé osserva e sperimenta l’accadere del miracolo della vita
che prende la forma dei mille esseri.

Noi siamo partecipi del gesto del creare e del nutrire,
siamo interni all’essere Tuo e alla legge Tua
che vuole che nel divenire gli esseri si nutrano di altri esseri,
gli uni donandosi agli altri,
e così realizzando una circolarità unitaria
dove non c’è essere che non sia partecipe del tutto,
dove ogni essere è e realizza il Tutto.

Noi non compiamo il gesto del mangiare,
noi siamo il mangiare.
Noi non beviamo,
siamo il bere.
Noi non celebriamo,
siamo la celebrazione.
Noi non entriamo in comunione,
siamo la comunione.
Noi siamo Te,
la Tua vita unitaria così come si dispiega nelle mille forme
e nelle mille apparenze del divenire.


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14 commenti su “La differenza tra il ringraziare e l’essere quel grazie”

  1. Tu dici :” esiste una stagione in cui affermare che Dio esiste ed esistiamo noi non ha alcun senso” e di conseguenza, dici in un altro punto non ha più senso pregare. Concordo sulla prima affermazione, sono incerta sulla seconda. Perchè se è vero che siamo nell’ Assoluto, che non c’è separazione è pur vero che quando percepisco l’unitarietà la percepisco perchè sento di essere la goccia non il mare da cui essa proviene, pertanto quando penso al mare o il pensiero mi va al mare, prego. E’ come quando, per fare un esempio, per rivolgersi a se stessi, per comprendere una cosa di se stessi , uno parla ad alta voce. Del resto i testi che tu hai proposto sono preghiere e si rivolgono ad un Tu.

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    • Viene una stagione in cui non c’è la goccia, né il mare..
      I testi a cui fai riferimento hanno una funzione didattica e, necessariamente, usano aspetti del linguaggio duale e di quello unitario.
      Se avessi dovuto esprimere semplicemente il mio sentire, mi sarei espresso in altri termini, ma qui si trattava di plasmare delle menti e di far risuonare delle coscienze..

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  2. Avverto tutto ciò come il punto nodale. Eppure la nostra natura / cultura è impastata di dualità. Mi chiedo il senso della dualità presente nelle cose : inspiro/espiro, giorno e notte, nascere e morire, onda che viene e che va, quiete e tempesta, si potrebbe continuare a lungo…. È l’insieme del duale che costituisce l’unitario ? grazie

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    • È l’unitario che genera il duale, non il duale che costituisce l’unitario.
      Il divenire è intimo all’essere ma, bisognerebbe specificare, il divenire è solo una illusione creata dai sensi e dalla mente.
      Nell’unitario non esiste alcun divenire, l’Uno non è mai divenuto due.
      Nell’unitario esistono le condizioni, le leggi, perché si crei il duale, l’apparire illusorio del tempo e della trasformazione.
      Nell’unitario non esiste una scena che diviene, esistono fotogrammi di scene, immobili.
      È la coscienza che sente in successione i fotogrammi e che crea il divenire, e sono i sensi della percezione che lo rendono forma.
      Nell’unitario esiste il programma per l’essere coscienza, per l’essere sensi ecc, ma l’unitario è, non diviene.
      E il divenire è un gioco illusorio, come un sogno, nulla di reale.

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  3. C’è una fase in cui ringraziare diviene una stonatura. Mi evoca un’esperienza vissuta molte volte. Ad esempio quando il presidente di un’associazione ringrazia i soci per la presenza ad un’assemblea. Mica sono venuti per fare un piacere a lui! “Serve” a loro come singoli e come organismo globale, non c’è una separazione benefattore/beneficiario. Questo fastidio da sempre provato ora è focalizzato. Grazie

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  4. “Viene anche una stagione in cui è necessario che le menti si pieghino e si addomestichino al nuovo compreso, perché altrimenti continueremo a sentire in un modo e a dichiarare in un altro, vivendo una sostanziale frattura tra i piani del nostro essere e una conseguente frustrazione per una incompletezza che non riesce a sanarsi”.
    Trovo questa precisazione calzante, almeno per me, poiché vedo quanto la mente possa facilmente appropriarsi dell’esperienza contemplativa, trasformandola in momento di piacere, su cui si diverte a ricamare interpretazioni e attribuzioni di merito. Qui la disconnessione assume un ruolo importante per rimanere nel fatto che accade, e tra i fatti rientra il funzionamento duale della mente stessa.
    Quando la mente si appropria dei momenti contemplativi per trasformarli in esperienza, il ringraziare diventa proprio la conseguenza di un apprezzamento. C’è l’illusione di un soggetto che ha l’impressione di ricevere qualcosa che lo gratifica, quindi ringrazia per questo.
    Tuttavia, per quel che mi è dato di vedere, quel ringraziare, che attraverso il filtro della mente diventa atto duale, ha le sue radici nella sostanza dell’amore cui attingiamo continuamente e che nel momento contemplativo affiora alla consapevolezza.
    Come recita il testo “Noi siamo attraversati dalla gratitudine
    per la Tua consapevolezza che ci costituisce,
    che permea i nostri sensi e che, chiaramente e lucidamente,
    ci permette di essere e condividere la natura della creazione,
    natura di Te, natura di noi mai altro e distinto da Te,
    natura di ogni essere in Te,
    natura di un Tutto inscindibile e mai frammentabile. ”
    Mentre scrivo questo commento, mi si chiarisce un po’ di più il senso di queste parole.
    Grazie.

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  5. “…La chiave è non aggiungere niente al fatto che accade, ovvero non aggiungere catalogazione, parametrazione, aspettativa.
    Se il fatto è libero da ciò che la mente vi aggiunge, esso è il Reale.
    Quel Reale non ha soggetto, né oggetto; non ha Padre, né figlio; non ha Creatore, né creatura….”
    Sento questo molto vero.
    Ci vuole, credo, molta pratica di osservazione e di azzeramento per non aggiungere niente al fatto che accade…
    Forse occorre anche una certa serenità raggiunta nel paradigma del divenire, cioè nel duale… non so se le mie espressioni sono corrette, ma confido nella vostra intuizione!

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    • A Roberta G.
      Effettivamente, per entrare in un’ottica unitaria è necessario:
      – conoscere la natura e la funzione del divenire, del duale e saperla interpretare adeguatamente, sapienza che deriva dalla frequentazione assidua del paradigma;
      – mantenere una vigilanza/consapevolezza molto alta con una capacità forte di azzerare.

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  6. Ti ringrazio per aiutarci sempre più nel dirigerci verso il punto focale.
    A me aiuta più questo post che il seguire come didattica i salmi o pratiche cristiane, non vedo quanto quest’ultime mi possano aiutare ma seguo le tue scelte e al dunque finirò col capire. Sono fiduciosa.

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  7. Penso che mi ci vorrà tempo per comprendere a fondo il senso di unità di cui parli. Grazie per i tuoi scritti, perché mi permettono di riposizionare lo sguardo, distolto da mille sollecitazioni, su ciò che è e basta

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