La dedizione radicale del monaco alla via di unificazione

Un monaco – colui che ricerca e realizza in sé l’unità – non è un lavoratore dell’interiore, la sua dedizione non è a tempo e non va in ferie dalla sua disposizione interiore.
Un monaco è monaco sempre, ad ogni respiro e finché respiro c’è, fino a quando è attraversato da quella corrente che soffia dalla sua radice.
Certo, può smarrire quella connessione di fondo, e può ritrovarla in un ritmo che lo incalza a stabilizzarsi; come può perderla, definitivamente.
Ad ogni respiro dunque l’archetipo lo crea e lo costituisce come colui-che-si-forma-nell’Uno, nell’indifferenziato Essere.
Non la volontà della persona genera l’unità, ma la sua capacità di rispondere alla chiamata unitaria la colloca stabilmente nell’essere.
La capacità di rispondere: di sentire la chiamata e di rispondere. La volontà è utilizzata per ascoltare e per dire un sì senza condizione, non per costruire qualcosa.
L’unità già è, la persona la scopre in sé, il monaco la segue e la vede prendere forma nel suo incarnato.
L’intero cammino dell’umano non è che la scoperta di ciò-che-è, da sempre, oltre il tempo.
Non la conquista, la scoperta: ecco perché non c’è una scala da salire, ma solo un imparare a togliere ciò che aggiungiamo sopra l’essere del Reale.
Il monaco di questo tempo vive in famiglia, ha un lavoro, una vita sociale, la sua condizione è prettamente interiore, non ha bisogno di segni che lo distinguano ma realizza una ecologia che gli renda possibile l’opera.
La dedizione radicale chiede una ecologia radicale.
Se il centro dell’esistenza del monaco è l’ascolto di quella nota che lo costituisce, lo unifica e lo rende non-differenziato, allora egli coltiverà quell’ascolto in ogni atto, in ogni situazione, in ogni tempo.
Non è il mondo il problema del monaco, l’identificazione è il suo problema: lo scivolare nella prevalenza di quella sensazione, di quell’emozione, di quel pensiero, di quell’attaccamento, di quella brama. Così il monaco perde la capacità di ascolto e si perde.
Tornare all’ascolto è facile quando la dedizione è coltivata come un fiore raro; più complesso quando essa è debole e fragile.
La dedizione è il frutto di una comprensione: quando si è compreso il nucleo della vita, del vivere, essere dediti a quel nucleo non è difficile.
Quando quella comprensione è incompleta, anche la dedizione lo è: l’uso della volontà aiuta, ma non può compensare ciò che non si è compreso.
Un organismo come il Sentiero è composto di persone che quella dedizione hanno visto rivelarsi in sé, e di altre che arrancano tra l’esserci e lo smarrirsi: questa relazione complessa tra diversi livelli di dedizione e di aderenza alla condizione unitaria, è propria di ogni organismo monastico tradizionale o meno che sia.
Sempre convivono livelli differenti di sentire per il beneficio di tutti.
Il monaco che vive in casa e che è marito, o moglie, genitore, a volte ha un partner facilitante i suoi processi, altre no: sempre ha davanti qualcuno che è il suo reale, il muro del suo zazen.
Quella persona che vive il monaco-in-sé, senza sosta torna alla sua radice e fluttua tra l’identificazione e lo zero e, ad ogni passaggio, ad ogni caduta, ad ogni conflitto diviene più forte, più solido e più dedito.
Quindi la dedizione è figlia di un processo, come tutte le comprensioni e i loro frutti.
Parliamo di dedizione radicale e forse questo suona male a qualche mente: credete sia possibile una dedizione a metà? Una dedizione tiepida?
Ecco allora che il monaco non è altro che un obbediente, colui-che-obbedisce-fino-alla-fine.


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13 commenti su “La dedizione radicale del monaco alla via di unificazione”

  1. Mi lascio interpellare dalle domande che poni in chiusura. A me piace pensare che la dedizione non sia “completa” solo quando siamo perfettamente presenti a noi stessi o quando è accompagnata da “conoscenza”. C’è una dedizione non meno importante che mettiamo in gioco quando viviamo il nostro quotidiano con semplicità, apprezzando le relazioni, il lavoro, la natura intorno a noi, la cultura, l’arte. Vedere le cose come sono realmente, “togliere il velo”, credo significhi prima di tutto amarle proprio per come si presentano ai nostri occhi. Già questo è perfetta dedizione, perfetta letizia. Un abbraccio

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    • A Jacopo.
      Condivido pienamente. La radice di ogni dedizione è in quello che dici, in quello che abbiamo davanti, che accade adesso, che è il nostro feriale. Se non conoscessi la dedizione a questo, al minuto, al trascurabile, all’insignificante, all’ordinario su cosa appoggerei la mia vita? Sul significante? Ma non c’è, è una categoria inesistente nel divenire!
      Il significante non è qualcosa, qualcuno, uno stato, un concetto, una comprensione: il significante è dietro, prima di tutto questo, è la radice di ogni cosa.
      Allora, prima vedo/percepisco/contemplo la cosa così come mi appare e poi, se ho sensori aperti e in ascolto, colgo l’Essenziale, il Significante, il Determinante.

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  2. E’davvero nuova e inusuale, rispetto alla tradizione, la definizione del monaco come di colui che ricerca e realizza in sè l’unità. Mi “affascina” potermi definire monaca, tuttavia vedo ancora la miseria del mio percorso, le identificazioni, i giudizi, gli smarrimenti. Ho l’impressione. sempre più spesso, che tutto l'”appreso” scompaia e che rimanga niente.

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  3. “Un organismo come il Sentiero è composto di persone che quella dedizione hanno visto rivelarsi in sé, e di altre che arrancano tra l’esserci e lo smarrirsi: questa relazione complessa tra diversi livelli di dedizione e di aderenza alla condizione unitaria, è propria di ogni organismo monastico tradizionale o meno che sia.”. Sento che tutto ciò abita anche in me e forse, in ognuno. Grazie

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  4. Sento accrescere in me il bisogno di non lasciare le cose in sospeso. Che sia una faccenda di casa, un lavoro o un impegno, cerco di portare a termine l’azione intrapresa, senza protestare, anche quando sono stanca. La mente dice che posso rinviare, la coscienza mi impone di portare a termine l’impegno. Mi accorgo di quanto la mente possa essere creativa nel trovare giustificazioni, ma qualcosa mi spinge a non ascoltarla. Perché porto questo esempio? Perché è in questo semplice processo che azzero la mente e sto in quel che c’è. Non sorge giudizio: è soddisfacente, è faticoso, mi piace, non mi piace.
    Penso che sia un modo per avvicinarsi a quel processo di resa di cui parli Robi. All’obbedienza vista come ascolto e non come sottomissione. Certo non mancano gli egoismi e le meschinità da parte mia. Ma è sempre più difficile nascondermi, minimizzare e raccontarmela.
    Sono solo all’inizio; lo sguardo non è così nitido né l’orizzonte così chiaro. So che il cammino verso la Comprensione è lungo, ma non credo sia possibile, una volta che si è intrapreso un serio percorso di conoscenza di sé, tornare indietro e far finta che certe verità non esistano.

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  5. Bene mi fanno queste parole.
    Appena rientrato da un’onda emotiva di rabbia che mi ostacolava persino nel parlare.
    Identificazione massima, poi ricondotta a zero, vista e lasciata andare.

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