Sulla natura dell’amore che è e che diviene

Approfitto di due commenti al post Il ciclo del vivente che da amore torna ad amore per approfondire l’argomento.
Marco: 1- mi viene in mente il canto “Io non sono nulla”, che a un certo punto dice: eppure senza di me… Frase che sembrerebbe affermare una peculiarità del nostro esserci; 2- se la realtà non è altro che dispiegamento dell’amore, è gioco forza intendere tutti quegli atteggiamenti e azioni, che poco o nulla hanno a che fare per lo meno con l’idea che noi abbiamo di amore, come il risultato di una distorsione identitaria di un impulso che è comunque impulso d’amore.
Samuele: 3- Come compendi però l’amore imprescindibile verso sé stessi? Anche proprio a livello di cura della persona, salvaguardia del proprio equilibrio psico-fisico? 4-Anche questa è una forma d’amore, e non necessariamente va sempre verso l’altro, ma va verso sé.

1- Eppure senza di me..
Se guardiamo al mondo del divenire, ognuna delle persone e degli esseri che popolano questo pianeta è unica e irripetibile, tessera relativa di un sentire assoluto che si dichiara nel tempo.
Gli esseri nascono e muoiono e ad ogni ora il pianeta è diverso nel suo essere specchio del sentire assoluto: specchio relativo, non va dimenticato.
Questo dal punto di vista del divenire, ma da quello dell’essere? Che ne è di me dal punto di vista dell’essere, si può ancora affermare “eppure senza di me”? No, evidentemente.
Ora, quando voi leggete quello che scrivo dovete tenere in considerazione che, quasi sempre, io non esprimo opinioni, ma traduco in linguaggio il più possibile logico, un’esperienza nel sentire, nell’essere.
Il mio fine non è mai fare ragionamenti e speculazioni, ma portare esperienze di sentire che possano essere di una qualche utilità per coloro che sono in grado di decodificarle, o di entrarvi in risonanza allo stesso livello di generazione.
Anche quando do indicazioni comportamentali, queste sorgono dall’esperienza diretta, esperienza di un sentire che contiene in sé la sfumatura che viene trattata.
Nell’essere non puoi dire “eppure senza di me”, non ha senso.
Nell’essere non c’è un me peculiare, può esserci, e senz’altro c’è, una sfumatura di sentire peculiare ma che non viene ricondotta ad alcuna soggettività, quindi quell’eppure, come connotatore di una soggettività, non trova spazio.
Una precisazione: la sfera dell’essere inizia a configurarsi, secondo la mia comprensione, negli strati più alti del corpo/mondo akasico, o della coscienza, quindi l’esperienza del non divenire, del non tempo, della prevalenza di un sentire-che-è, è esperienza che si dischiude quando la consapevolezza può appoggiare su quei piani.
Quasi sempre mi trovo a comunicare un sentire che non è nel divenire, che lo precede, e da esso prendono forma dei concetti e un linguaggio conseguenti che si articolano nella forma logica a me possibile, ma bisogna considerare che mistica e logica sono due strade differenti e dunque la logica contiene ed esprime solo in parte ciò che viene sperimentato.
Il linguaggio, per quanto nutrito di immagini, rappresenta un mezzo parzialmente idoneo a volte, un ostacolo altre, ed utile sarebbe un ricorso più abbondante alle metafore ed alle allegorie, ma non è questa la mia vocazione.
Se fosse per me, se non aggiungessi uno sforzo didattico e dunque esplicativo alla prima e immediata decodifica del sentire, le espressioni sarebbero molto più essenziali e, inevitabilmente, più ermetiche.
Chi mi legge deve, necessariamente, contemplare il testo e questo richiede attitudine, tempo e intuizione.

2- Si, l’impulso è sempre d’amore ed è l’errore di decodifica, ai vari livelli e ad opera dei vari corpi, che produce la distorsione. L’errore di decodifica è possibile in virtù del deficit di comprensioni della coscienza.

3-4- Dal mio punto di vista, non esiste qualcosa che si possa definire amore per sé, o amore per l’altro.
Sono espressioni che hanno un senso solo nell’ambito del divenire, declinazioni didascaliche della condizione d’essere.
Fino a quando c’è una separazione, una divisione interiore, una non-unificazione dunque, si può parlare d’amore nei termini correnti, ma in presenza di una sostanziale unificazione interiore ciò che si dischiude alla comprensione è altro.
Finché c’è un soggetto, c’è un mondo; quando un soggetto non c’è più, si apre un altro mondo con connotati molto differenti e con logiche altre.
Nell’unità non c’è amore per sé, o per l’altro, c’è amore e basta, privo di soggetto e di oggetto; c’è Essere e basta.
L’amore accade e copre ogni aspetto dell’essere, non c’è distinzione tra interno ed esterno, tra sé e l’altro.
La cura della persona, sé o altra, è parte di quel coprire: l’immensa vastità dell’essere si fa gesto minuto e feriale, ordinario.
Tutto diviene il quel-che-è.
Per sua natura il quel-che-è non diviene, non è interno o esterno, io o tu, evoluto o inevoluto, bene o male.


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7 commenti su “Sulla natura dell’amore che è e che diviene”

  1. Leggo solo ora questo post e risuonano similitudini con la domanda posta erroneamente nella sezione domande per l’intensivo. Penso a quanto le mie logiche siano ancora confinate al mondo del Divenire e non risiede ancora in me, quell’automatismo che mi volgerebbe all’Essere. Sempre grata.

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  2. Lo scoglio logico che spesso incontro è quella divisione illusoria ma utile per capire dinamiche esistenziali tra essere e divenire. Ogni volta lo sforzo per stare contemporaneamente nell’essere e nel divenire si sente, eppure sempre meno è frutto di attrito o conflitto. Grazie roberto!

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  3. Per quanto riguarda il punto 2: ieri, mentre ripensavo al commento che ha stimolato questo post, mi sono sorti dei dubbi sull’esattezza di quanto da me affermato. Ho pensato che anche un atto di violenza nasce da un impulso d’amore, essendo la scena che si realizza necessaria alla persona che la vive, affinché possa acquisire quelle comprensioni che lentamente ma inesorabilmente le permetteranno di transitare da ego ad amore. Quindi l’impulso che sta a monte della coscienza è comunque e sempre impulso d’amore, ma ho pensato che forse non era proprio corretto parlare di distorsione da parte della coscienza che non ha sufficienti comprensioni (cosa che mi sembra invece venga confermata da questo post). La coscienza semplicemente fa quello che può. Anche se effettivamente il risultato sarà sempre più conforme all’impulso originario a mano a mano che la coscienza acquisisce comprensioni e parallelamente l’identità si fa progressivamente da parte. Scusa, probabilmente diciamo la stessa cosa. E’ solo per mettere a fuoco.
    Grazie, anche per le altre precisazioni.

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    • La coscienza in sé non distorce ma, avendo pochi dati, e avendo necessità di acquisirli, induce dei processi con direttive essenziali: ogni corpo decodifica quelle direttive essenziali secondo le sue possibilità e, alla fine, l’azione può essere molto diversa da quella che era l’intenzione originaria della coscienza.
      D’altra parte, distorsione o no, i dati dell’esperienza ritornano alla coscienza e contribuiscono ad aggiungere tessere di comprensione e dunque, il tentativo successivo da parte della coscienza, sarà sostenuto da maggiori dati, più chiaro nelle indicazioni ai corpi, più capace di direzionarne la decodifica.

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