Non dal santo, ma dall’assassino

E’ possibile guardare alla realtà della vita a partire dall’ottica non del santo, ma dell’assassino? E cosa significa questa espressione? Chi è il santo, e chi l’assassino?
Evidentemente, questo sguardo è una provocazione. Il santo parla di ciò che è giunto, o giunge a compimento; l’assassino di ciò che arranca, della difficoltà, del limite, anche grande.
Non è l’uomo sempre nella tensione tra santo ed assassino? Tra il passo faticoso nel quotidiano e quello slancio verso qualcosa di radicalmente altro? A me sembra che sia così e mi sembra anche che quando noi leggiamo la realtà, nostra e altrui, nella logica prevalente del “vorrei essere, dovrei essere” e dimentichiamo ciò che siamo, perdiamo la consapevolezza del nostro cammino.
La direzione, la meta da raggiungere, la condizione dell’amore da realizzare, non sono in discussione: tutta la vita dell’uomo tende a quel raggiungimento e non vedo libero arbitrio in quella direzione, non vedo possibilità di scelta o di cambio di destinazione.
Vedo invece la possibilità di bloccarsi nella trasformazione rifiutando il limite che marchiamo: metaforicamente, l’assassino in noi.
Il rifiuto di sé produce i danni maggiori. La consapevolezza di quel che si è, l’accoglienza di quell’essere così e non altrimenti, sono le basi di tutto il cambiamento possibile perché relativizzano il giudizio dell’identità su di sé e quindi tolgono di mezzo quell’attrito che ostacola la trasformazione.
Più mi accolgo, più le esperienze mi trasformano. Più mi giudico, più ostacolo i processi: non è il giudizio su di me che mi cambia la vita, per essere cambiato debbo vivere e debbo osare essere quel che sono. Se mi censuro finisce che mi impedisco di vivere e cristallizzo tutti i processi.
Se sono impregnato dell’aspirazione del santo corro il rischio di non accogliere l’assassino in me e di ostacolare i processi: se accolgo l’assassino e lascio che l’anelito al santo si dispieghi, allora posso transitare attraverso i mille stati che dall’uno conducono all’altro.
L’accoglienza non è un processo lineare, l’accoglienza dell’assassino comporta diverse fasi: l’orrore per sé, il dolore per il limite mostrato, la macerazione nel dolore, il tentativo di giustificarsi, il lentissimo processo del riprendere a vivere, l’indelebilità del gesto compiuto e della ferita impressa all’altro e a sé. L’accogliersi è uno dei gesti più profondi e complessi che l’uomo possa compiere, profondamente articolato e carico di sfumature e di interrogazioni su di sé, di svelamenti, nascondimenti, piccole luci che compaiono sul cammino.
Questa visione ha molte implicazioni: calata nella realtà dei singoli e della società, e non guardata in astratto, permette di comprendere tutto l’agitarsi del mondo, il nostro continuo farci del male, i piccoli gesti di nascita del nuovo, la profondità di aperture senza condizione.
Ma concludendo mi chiedo: allora il proprio essere va sempre espresso? Non esiste anche la necessità di censurare alcune spinte che sorgono dentro sé?
Vi chiedo: il censurare non è anche esso parte del processo del conoscersi e quindi del trasformarsi? E quando il censurare diventa deleterio e produce cristallizzazione invece che trasformazione?
E ancora: se non ci fosse giudizio su di me come potrei comprendermi? Il giudizio non è forse quel vedersi alla luce di un postulato morale o di un sentire di coscienza? Il giudizio non è forse un passaggio ineludibile nel processo del conoscersi e del lasciarsi trasformare dalla vita?

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2 commenti su “Non dal santo, ma dall’assassino”

  1. Grazie Roberto, a volte basta davvero poco per sconfinare dall’accoglienza di sé al giudizio di sè.
    Le tue parole mi aiutano a ricentrarmi.

    Namastè

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  2. Il movimento che sento non è quello della censura ma al contrario dell’offrirsi, con responsabilità, la propria responsaboilità verso se stessi, unicamente verso se stessi. Noi possiamo offrire ciò che siamo, niente di più nè di meno, ciò che ci appartiene e attraverso questo gesto ricevere dall’altro e grazie a questo ascolto, a questo ritmo, può accadere la trasformazione.
    Sempre nel giudizio che viene dalla mente ci sono condizionamenti e false impalcature,sono altri gli strumenti che possiamo adoperare, più veritieri, come la sensazione, l’intuizione e il distacco

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