Tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere

C’è qualcuno che non vive questa tensione, almeno fino a quando l’identità non ha mollato la presa?
Leggo e sento in ambito spirituale fesserie immani sull’accettazione di sé e sul superamento di questa tensione: l’essere divisi è la nostra risorsa, è il processo di combustione che genera i chilowatt di potenza necessari al procedere e alla trasformazione.
Di più: c’è chi è giunto alla fine del suo processo di trasformazione e supera naturalmente il conflitto, e c’è chi del conflitto ha bisogno per procedere.
Il nostro problema è che non riusciamo a tenere insieme gli opposti; essendo, secondo la nostra logica, alternativi, abbiamo la necessità di espungerne almeno uno: o conflitto, o accettazione, quando la soluzione è accettare la condizione di limite nella quale ci troviamo e, da quella base accolta e integrata, lasciare che la spinta interiore della coscienza ci conduca continuamente oltre.
Uno dei cardini del pensiero “spirituale” è il “non giudicare”, né sé, né gli altri e per poter rimanere coerenti con questo assunto ci dobbiamo arrampicare sugli specchi perché per meccanica nostra, per limite di comprensione e per ignoranza, tendiamo inevitabilmente a giudicare e, quando non lo facciamo, ci confiniamo nella melina delle ipocrisie.
La persona che giunge alla fine del suo cammino smette di giudicare per moto proprio: prima tutti giudicano, ovvero appongono etichette sulla propria, ed altrui realtà.
E si dolgono del proprio limite e si sentono in colpa e patiscono il non riuscire ad essere diversi: questo è sano.
Insano è paralizzarsi all’interno di una etichetta, di un giudizio.
Dire a una persona che non è pronta: “Non giudicare!” è come dire ad un carnivoro di farsi all’istante vegano, una cosa contro la sua natura: è quello che fanno le religioni che ti danno obbiettivi sempre troppo grandi per te e castrano il tuo procedere umano, se le ascolti. Ma, per fortuna e per saggezza umana, non sempre le ascolti.
Il discorso sul giudicare è solo un esempio e mi serve per dire che sono la tensione e il conflitto che schiodano l’umano dalla comodità della sua poltrona e lo portano in avanti: è la sferzata dell’altro che ci fa muovere; è il disgusto per noi stessi che ci fa procedere oltre il conosciuto.
Quando mi capita qualcuno nel bel mezzo del conflitto non mi viene da dirgli fai pace, ma usa il letame del conflitto per costruire la pace.
Come? Solo se conosci la natura del limite puoi superarlo e puoi, transitoriamente, pacificarti. Fino al prossimo conflitto.
Se una persona alla fine del suo cammino è ancora nel conflitto, significa che non è alla fine ma, anche qui, bisognerebbe distinguere ed affermare una ovvietà: solo Dio non ha conflitto, tutti gli altri lo hanno, anche quando realizzano la messinscena dei pacificati.
Tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, dunque: ciò che siamo è frutto del compreso; ciò che vorremmo essere è là dove la coscienza vuole condurci con le comprensioni.
Una persona incarnata con un corpo da 200 chili deve, da un lato far pace con quella condizione altrimenti non riesce a vivere nemmeno un minuto della propria condizione esistenziale, dall’altro ha bisogno di chiedersi che cosa può imparare da quella massa di carne, grasso e ossa che si porta dietro.
Avete mai pensato che la più bella e innamorata di sé delle modelle, alla prossima incarnazione potrebbe trovarsi infilata in un corpo da 200 chilogrammi?
La vita è un processo: non si tratta di accogliere questo o quello, di amare questo o quello, si tratta di abbandonarsi al processo, di essergli dediti, di amarlo, il processo.
Il giudizio sferzante dell’altro mi annichilisce? Posso evitarlo? No, ci sarà sempre qualcuno che mi farà a pezzi e la soluzione non è il predicare il non giudizio – per la semplice ragione che quell’appello lo accoglieranno solo coloro che possono già praticarlo, non gli altri -, ma il fornire gli strumenti per imparare dal giudizio:
“Mi fai molto male dicendomi e facendomi questo, ma ho imparato a cogliere il simbolo di quanto mi dici e mi fai, a non fermarmi sulla ferita al mio ego, a cogliere nella sferzata che mi giunge il nucleo di verità, quello che effettivamente parla di me e che magari mi era stato posto in modi meno duri, ma io non l’avevo colto e allora adesso mi giunge, attraverso te, in un modo così diretto e ostile!”
La questione, come sempre, è aiutare le persone a costruire la canna per pescare: non insegnargli a pescare, perché mossi dal conflitto impareranno da sé, né tanto meno dargli il pesce ma fornirgli la relazione attraverso la quale possano conoscersi.
In questa relazione non ci sono assoluti e non ci sono i devi essere così, o cosà: ci sono i processi, la loro conoscenza, la loro accettazione, la consapevolezza di quello che producono.
Posso guardare al violento e dire che è sbagliata la violenza. E perché dovrebbe essere sbagliata? Se accade ha una sua funzione, qual’è all’interno del mio piccolo o grande mondo?
Ecco che passo dal fatto al processo e alla lettura simbolica di questo: dall’essere vittima al divenire artefice. Dal giudizio che imbalsama e blocca la realtà, al conflitto che la rinnova.


Se hai domande sulla vita, o sulla via, qui puoi porle.
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6 commenti su “Tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere”

  1. Mi limito a una piccola considerazione scaturita dalla lettura del post, a prescindere dagli eventi che ti hanno evidentemente spinto a scriverlo, che ho bisogno ancora di far decantare.
    Qualche giorno fa, non ricordo a che proposito ma non ha importanza, è sorto in me un lamento. Mi sono detto che, sì, me lo potevo concedere. Inutile negarlo, cercando di aderire forzatamente a un modello che non lo contempla. La questione semmai è un’altra. Non identificarsi troppo con quel lamento, o quanto prima vederlo per quello che è, per quello che dice di te e magari anche per la sua spinta propulsiva. Questo, credo, almeno in parte sia avvenuto.

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  2. Certi miei limiti li conosco, altri forse ancora no, quello che mi resta ostico delle volte è capire la natura che lega alcuni conflitti, trovare e capire quel limite che unisce un evento a un altro che percepisco simile al precedente. Come dice Catia la comunità mi aiuta al cammino verso una comprensione che percepisco piano piano arriva, anche da un riferimento già sentito ma solo in quel momento mi apre a una comprensione nuova.
    In questi anni ho visto nella nostra comunità arrivare molte persone e alcune in poco tempo subito attive e protagoniste che mi hanno fatto pensare che la loro comprensione avesse una capacità doppia della mia ma con la stessa velocità hanno lasciato la comunità.
    Non mi meraviglio di niente, capisco come tu dici Roberto che hai necessità e che la comunità ha bisogno di gente nuova, attiva, propositiva perché porta stimolo e nuova energia alla nostra comunità.

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  3. Prendo spunto dal commento di Sandra, tutto chiaro anche per me, ma sento che ci sono passaggi che ho compreso ed altri di cui sono diventata consapevole…..è in questo passaggio che ancora a volte ci si perde per poi ritrovarsi un pò più “adulti”….se così si può dire…

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  4. Sempre di più non so chi sono e chi vorrei essere, credo di vedere tuttavia i miei molti limiti. La comunità e il cammino del sentiero mi sono di aiuto per non perdermi nel deserto, mi sono di pungolo per non adagiarmi, pur con tutti i limiti di noi come persone, penso che dobbiamo perseverare nel crederci.

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  5. “Il discorso sul giudicare è solo un esempio e mi serve per dire che sono la tensione e il conflitto che schiodano l’umano dalla comodità della sua poltrona e lo portano in avanti: è la sferzata dell’altro che ci fa muovere;…”

    Questa mi sembra la risposta.
    Questa è la funzione della Comunità.

    Per quanto riguarda la sua passività, una zona di comfort, tempo fa coniata da un altro che se ne è uscito, è vero, questo lo sento anch’io che abbiamo un problema, ma è standoci dentro che possiamo fare qualcosa, sporcarci le mani e la faccia per smatellarla, perchè è un lavoro che dobbiamo fare, nella relazione che la svela, prima di tutto dentro noi stessi nelle nostre relazioni quotidiane.
    Fino a quando vale la pena tentare? Fino a quando abbiamo le forze e sentire che ne vale la pena, che ancora possono arrivare persone nuove che apprendano qualche strumento in più che consenta loro di superare dinamiche reiterate da una vita, che portano a volte anche tanta sofferenza, e da questo scambio apprendere e affinare i propri di strumenti.
    Questa credo sia la spinta personale a portare il mio contributo nella Comunità.
    Ci sono dei segnali che qualcosa sta cambiando in meglio e che questa Comunità possa presto andare a regimi più spediti.

    Circa la figura dell’insegnante, dipende da quanto cerchiamo di colmare con la sua figura uno spazio, con una errata comprensione del suo ruolo.
    Un delegargli una affettività che non gli compete, lui sta lì, sia che ci siamo sia che non ci siamo fa la sua strada, può voltarsi un attimo e guardarti ma non è detto che lo faccia e per questo non possiamo sentire che è una sua mancanza perchè un insegnante non è un amico, è un insegnante.
    Questo si impara solo con gli anni e con l’esperienza, e molti di noi sono ancora acerbi, forse troppi, e non hanno attraversato mari in burrasca con un approfondito lavoro sulle proiezioni, sulle relazioni, sulle proprie dinamiche, senza aver assaggiato per un tempo duraturo quell’acqua che disseta e contemporaneamente a vuotare il secchio, completamente.
    Il cammino una volta sfrondato il grosso diventa più quieto ma a un certo punto così stretto che in due non ci si passa (l’essere e la personalità/identità).

    Infine e ancora, sulla figura dell’insegnante, se lascia spazio o meno, la vedo molto semplice: senza di essa non ci sarebbe nessun tentativo di laboratorio esistenziale chiamato Comunità e proprio tu un domani potresti essere chiamato dalla vita a svolgere questa figura di insegnante per altri fratelli che incroceranno la tua strada, ma se non ti sarai fatto le ossa ora, sporcandoti le mani, cosa potrai passare all’altro?
    Come pensi di ricambiare ciò che hai ricevuto come regali assolutamente gratuiti e immeritati e di una tale bellezza da lasciare senza fiato?
    Come li fai rivivere per non lasciarli appassire dentro?

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