Lasciare che ognuno impari dalla propria condizione

Il Papa ha dato voce a quell’interrogativo sul silenzio di Dio che aveva tenuto nel cuore durante la visita di questa mattina ad Auschwitz-Birkenau. “Dov’è Dio? Dov’è Dio se nel mondo c’è il male, se ci sono uomini affamati, assetati, senzatetto, profughi, rifugiati? Dov’è Dio, quando persone innocenti muoiono a causa della violenza, del terrorismo, delle guerre? Dov’è Dio, quando malattie spietate rompono legami di vita e di affetto? O quando i bambini vengono sfruttati, umiliati, e anch’essi soffrono a causa di gravi patologie? Dov’è Dio, di fronte all’inquietudine dei dubbiosi e degli afflitti dell’anima?”, ha detto papa Bergoglio dopo aver letto il versetto del Vangelo di Matteo in cui Gesù dice: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
“Siamo chiamati a Servire Gesù crocifisso in ogni persona emarginata – ha spiegato il Papa – a toccare la sua carne benedetta in chi è escluso, ha fame, ha sete, è nudo, carcerato, ammalato, disoccupato, perseguitato, profugo, migrante”.
“Esistono domande per le quali non ci sono risposte umane – ha ammesso Bergoglio – Possiamo solo guardare a Gesù e domandare a Lui. E la risposta di Gesù è questa: ‘Dio è in loro’, Gesù è in loro, soffre in loro, profondamente identificato con ciascuno. Egli è così unito ad essi, quasi da formare un solo corpoFonte.
Dio risiede nel povero, è identificato con esso, sceglie il povero innanzitutto?
E perché? Ben misera sarebbe la sua giustizia, che si presume assoluta, se privilegiasse qualcuno.
Dio è nel povero, o nel processo che ci porta ad occuparci dell’altro?
La risposta è scontata: essendo Dio l’origine dell’amore, ed essendo questo la capacità di andare oltre i propri bisogni e di rivolgere la nostra attenzione all’altro da noi, indipendentemente da chi o cosa sia, la pienezza di Dio splende ogni volta che l’egoismo lascia il campo al “prendersi cura”.
Al centro c’è dunque il processo del “prendersi cura” non l’ammalato, il povero, l’emarginato.
Il “prendersi cura” è l’amore che si dispiega, il compreso che diviene intenzione ed azione, lo splendore dell’Essere ed è rivolto a sé come agli altri, in un giusto equilibrio.
A tutti gli altri, anche agli animali – sull’amore per i quali Francesco ha avuto da ridire –  anche alla dedizione al lavoro, anche alla cura dell’ambiente: la pienezza della natura di Dio spende ogni volta che l’umano esce dalla sua unilateralità di visione e abbraccia l’insieme, ogni volta che è capace di fondere il particolare personale con l’universale e in questo trova la sintesi più alta del suo vivere.
Il povero vive la propria povertà all’interno del disegno karmico personale: non si è poveri a caso, lo si è per necessità esistenziale. Lo stesso vale per il ricco.
Allo sguardo unitario non compaiono poveri e ricchi, ma persone espressione di coscienze con i loro compiti e le loro necessità esistenziali, guidate ed ordinate dalla legge del karma, dalla legge dell’equilibrio e da innumerevoli altre leggi.
La coscienza che rappresenta una incarnazione da povero, estrae i dati da quella condizione e così vale per tutte le condizioni, e sono tante, quasi tutte, che una coscienza sperimenta nel ciclo delle nascite e delle morti: non c’è né giustizia, né ingiustizia in questo, così funziona il divenire.
Quando il Maestro dice: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare” parla del processo dell’accudire, del servire, del mettersi a disposizione, del dare, della capacità di stornarsi dalla centralità di sé e di accorgersi dell’altro chiedendogli: “Posso fare qualcosa per te?”
Ora dirò qualcosa che vi darà fastidio.
E’ compito dell’umano risolvere il problema dell’ingiustizia, della sofferenza, della sopraffazione?
E’ suo compito provarci e dedicarsi a questo, quando in sé è maturata questa disposizione, senza la pretesa di risolvere ciò che risolvibile non è, perché non può correggere l’umano ciò che la legge del karma dispone.
Se sei povero perché la tua coscienza ha la necessità di sperimentare la povertà, ciò che conta, da parte mia, non è cercare di toglierti quella condizione ma fornirti gli strumenti per comprenderla appieno.
Fornirti anche gli strumenti per superarla, se vorrai e se potrai, ma stando ben attento al sostituirmi al tuo processo esistenziale.
Cosa significa? È il famoso “fornire le conoscenze per costruire la canna per pescare, non donare il pesce” cui cerca di attenersi tanta cooperazione allo sviluppo.
Se dalla dicotomia poveri/ricchi allarghiamo lo sguardo e proviamo a considerare i processi esistenziali che ogni essere vivente attraversa, possiamo innanzitutto monitorare la nostra disposizione interiore, la nostra centratura su di noi, o la nostra capacità di ascoltare, osservare, prenderci cura dell’altro, e possiamo individuare l’intenzione e l’azione più appropriati che rispettino il percorso dell’altro rendendolo dignitoso:
mettere a disposizione possibilità senza interferire, questa è la chiave.
Quindi non si tratta di osservare e rimanere immobili, si tratta di attivarsi in relazione all’intenzione che ci muove, offrendo, mettendo a disposizione, donando strumenti e fermandosi sulla soglia dell’esperienza esistenziale dell’altro, dove la competenza è solo sua.
Prenderci cura dell’altro è un processo esistenziale nostro e parla del compreso e del non compreso in noi: questo processo che diviene competenze, sensibilità, disposizioni può e deve essere offerto, quando ne sentiamo la necessità, ma si deve fermare un passo prima dell’altro cui spetta attingere o no, attivarsi o no, usufruirne o no.
Lasciare che ognuno impari dalla propria condizione: ci sono ambiti in cui questa affermazione ha un senso, altri in cui sembra difficilmente applicabile, o sopportabile.
Di fronte al bambino molestato e violato?
Faremo di tutto per evitarlo, attiveremo ogni nostra energia ed intelligenza: la nostra capacità di prenderci cura si estrinsecherà nella possibilità di prevenire e di provvedere, di sostenere e di accudire: nel nostro intimo, obbedendo al nostro sentire, ci attiveremo in tutti i modi e non ci fermeremo su nessuna soglia, ma sapremo che la nostra azione è limitata e a volte condannata al fallimento perché qualcuno, per karma, deve affrontare la molestia e qualcun altro il molestare.
Conterà il processo, non tanto il risultato che esula dal nostro dominio.
Conta sempre il processo: il Maestro indica il processo, non essendo mai la realtà sbagliata in sé, ciò che per noi conta è come ad essa ci rapportiamo nel momento in cui ci interpella.
Quella realtà, qualunque essa sia, parla del cammino esistenziale dell’altro, ma la nostra reazione parla di noi: il nostro attivarci, sentirci coinvolti, provvedere, ci illumina; la nostra pretesa di risolvere la supposta ingiustizia della vita, ci oscura.


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