La via a Dio è operare il bene?

Da tempo avevo in mente questo post ma, per ragioni diverse, l’ho sempre rimandato. Oggi leggo, sull’ultimo numero dell’Espresso, un articolo di Sandro Magister, il vaticanista del settimanale, che riporta delle affermazioni di due importanti teologi valdesi, Paolo Ricca e Giorgio Tourn e da quanto essi dicono prendo le mosse per dire poche e semplici cose.
Dice Paolo Ricca: “La malattia è che siamo tutti volti al sociale, cosa sacrosanta, ma nel sociale esauriamo il discorso cristiano e fuori da lì siamo muti”:
Giorgio Tourn afferma: “È chiaro che la sola testimonianza dell’amore fraterno non porta automaticamente a conoscere Cristo. Non c’è oggi un silenzio di Dio, ma il silenzio nostro su Dio”.
Da tempo vedo i cristiani comportarsi come degli appartenenti ad un sindacato: l’opzione per i poveri e la giustizia, i moniti contro la corruzione, l’accoglienza del diverso e molto altro ancora.
Come dice Ricca, opzioni sacrosante ma, è tutto quello che hanno da dire? È solo questa la loro funzione?
Il Maestro aveva intenzione di fondare un sindacato? Certo, un sindacato dei poveri e degli ultimi, ma era questa la sua intenzione e per questo ha dato la vita? Dubito.
Il titolo di questo post è provocatorio: certo, operare il bene è una delle vie a Dio, come il Karma Yoga nel Vedanta, ma perché tanta insistenza?
Non si vede altro? Si ritiene che non ci sia altro o, in qualche modo, si afferma che per l’umano la via dell’azione disinteressata sia la massima rappresentazione della sequela di Cristo e delle comprensioni conseguite?
Sembra che per i cristiani il fare sia il centro e in questo sono veramente figli del tempo: nell’insanabile frattura tra umano e divino, ciò che resta all’umano è la sequela del Cristo – incarnazione diretta di Dio – visibile attraverso la testimonianza della comunità primitiva, trasmessa dalle scritture sacre e dalla tradizione e concretizzata attraverso la dedizione all’umano.
La dedizione all’umano, il primo postulato: nell’incarnato, nella storia si realizza la salvezza.
Condivido: nel vivere, divenire consapevoli, comprendere si realizza la libertà dal condizionamento.
Nell’essere egoisti e nel conoscere e superare il proprio egoismo.
Nell’essere oppositivi e nell’imparare ad abbandonarsi e a fidarsi.
Nell’odiare e attraverso la scuola dell’odio conoscere, divenire consapevoli, imparare ad amare.
Processi complessi. Itinerari elaborati che richiedono lo sguardo lucido su di sé, la coltivazione degli strumenti della conoscenza e della consapevolezza. Il concedersi la possibilità della compassione.
L’insanabile frattura tra l’umano e il divino, il secondo postulato.
Per molto tempo i cristiani hanno guardato con un occhio al cielo e con l’altro alle faccende terrene e hanno finito per accecarsi, perché il loro sguardo al cielo era malato dalla morale che coltivavano nel cuore e il loro guardare alle cose terrene era ammorbato dalle brame umane mai adeguatamente viste e gestite.
Oggi sembrano aver dimenticato il cielo, considerato evidentemente irraggiungibile, e l’attenzione è focalizzata sull’esistenza terrena facendo di essa una ideologia piena di punti fermi, di assoluti – come è nel loro costume – di rimbrotti, di slanci individuali e collettivi tesi a che cosa? Alla realizzazione terrena del Regno?
Parlava di questo il Maestro? Non so, non credo: ognuno guarda a quella fonte e attinge l’acqua che vuole e che può.
Personalmente penso che operare il bene sia il frutto ultimo del cammino umano: una delle vie e il frutto ultimo.
Una delle vie, perché non tutti scelgono la via del fare: per alcuni è prioritaria la via del pensare, per altri la via del contemplare, per altri ancora la via del fare, del pensare e del contemplare con tutte le sfumature e gli equilibri intermedi tra queste disposizioni interiori.
Però è certo che alla fine tutti si trovano a confrontarsi con il fare, ma non come i cristiani mi sembra che suppongano: la questione centrale è che l’intenzione d’amore possa divenire azione, fatto, gesto.
L’intenzione amorevole si veste di pensiero compassionevole, di emozione e calore fraterno e diviene ascolto, attenzione, disponibilità, accoglienza, vicinanza, discrezione, sollecitudine, dedizione.
Ma deve esistere una intenzione amorevole.
Deve esistere un pensiero che si è piegato alla compassione.
Devono essere maturate una affettività ed una emotività di compassione impregnate.
Deve essersi formata una corrispondente visione di sé non ego-centrata.
Tutto ciò è perseguibile attraverso la via del fare? Certamente, ma io non vedo in ambiente cristiano una filosofia, una teologia, una pedagogia e una didattica del fare così come, ad esempio, è stata elaborata nel Vedanta.
Vedo invece la raccomandazione pedante, la sollecitazione reiterata che spinge le persone incontro a ciò che molto spesso non appartiene al loro compreso, ma di cui si imbevono al fine di essere adeguati al credo che seguono e a quello che si raccontano di dover e poter essere, anche al fine inconscio di essere accettati e apprezzati dalle loro comunità e dai loro fratelli nella fede.
Vedo il vestito del fare gratuito, l’ambito esistenziale della gratuità, ma non il cammino che ad esso conduce: ancora una volta si indica alla persona un obbiettivo grande e ultimo, ma non gli vengono consegnati gli strumenti per conseguirlo e questo produce il vestirsi di un qualcosa che non si è e l’essere stretto in un dovere per cui non si è forse pronti.
Se l’indicazione è “Opera il bene!” e non è “Conosci te stesso e da quella conoscenza sorgerà l’operare il bene!”, il frutto avvelenato della colpa è dietro l’angolo.
La conoscenza di sé conduce ad operare naturalmente il bene, nelle forme possibili a ciascuno.
La conoscenza e la consapevolezza dei propri limiti conducono a superarli.
La conoscenza, la consapevolezza e la comprensione sono il processo che dall’egoismo conduce all’amore che, quando è vero, attraversa l’insieme dell’essere: è amore nell’intenzione, nel pensiero, nell’emozione e nell’azione.
Ma, se questo è ciò che ci attende, quante sono le vie per giungervi? Una per ogni persona, direi.
A cosa serve una religione? Non lo so e non spetta a me rispondere dal momento che non appartengo ad una religione.
Ma so a cosa serve, qual’è la funzione di un cammino interiore come il nostro: creare la conoscenza e la consapevolezza, favorire la comprensione del modo proprio a ciascuno di giungere a conoscere, incarnare e manifestare l’amore di Dio.


Se hai domande sulla vita, o sulla via, qui puoi porle.
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4 commenti su “La via a Dio è operare il bene?”

  1. Spesso il fare porta ad identificarsi con ciò che si fa, soprattutto se si pensa di fare il “bene”. Identificarsi con un’esperienza, tanto da non riconoscere quando la stessa è esaurita perché è già avvenuta la comprensione che ci serviva, è una manifestazione dell’ego, non più un gesto gratuito che nasce da un’intenzione d’amore. Noi non siamo ciò che facciamo, nemmeno quando lo riteniamo giusto e sacrosanto, anzi proprio perché lo riteniamo giusto e sacrosanto.

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  2. “Ma so a cosa serve, qual’è la funzione di un cammino interiore come il nostro: creare la conoscenza e la consapevolezza, favorire la comprensione del modo proprio a ciascuno di giungere a conoscere, incarnare e manifestare l’amore di Dio”
    Niente di più c’è da dire… Grazie roberto!

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  3. Mi vien da dire “mitico” (almeno lasciamolo dire con riguardo al tuo post).
    Delle sciabordate pazzesche; una per tutte: dall’angusto “io sono la via, la verità è la vita” al tuo “..quante sono le vie per giungervi? Una per ogni persona, direi”.
    Da come l’ho capita io quando frequentavo l’ambiente cattolico, il fare legato alla pratica della gratuità e della carità era un modo per passare dalle parole, dal mentale al fare esperienza dell’amore. È così che ad es. dei ragazzi di 13 anni vengono portati al ricovero degli anziani, per fare esperienza del vero ed unico amore.
    Efficacia? Assai scarsa direi e forse controproducente per i più.
    Ma sai, quando la “via è unica” tutto diventa angusto e problematico!

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